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Bolletta elettrica: il record nostrano

Bolletta elettrica: il record nostrano

di Massimo Blasoni – Metro

Menomale che state leggendo questo mio intervento la mattina presto in metro e non invece la sera, magari a letto dopo aver acceso la lampadina sul comodino. La bolletta costa, ma forse non sapete quanto. Elaborando i dati Eurostat, il nostro Centro studi ha calcolato che negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno visto crescere addirittura del 25,56% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici. Prendendo in considerazione i 28 Paesi europei scopriamo peraltro che, in questo stesso periodo, il prezzo dell’energia domestica è diminuito solo in sei nazioni: Ungheria (-30,63%), Malta (-23,52%), Repubblica Ceca (-6,25%), Slovacchia (-4,24%), Cipro (-2,17%) e Svezia (-1,90%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è invece cresciuta n maniera consistente: +56,65% in Lettonia, +51,96% nel Regno Unito, +47,91% in Grecia, +40,43% in Portogallo, +30,73% in Spagna, +25,29% in Francia e +22,52% in Germania.

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Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Negli ultimi dieci anni gli italiani emigrati all’estero sono stati complessivamente 896.510, di cui 136.328 soltanto nel 2014 (+8,42% rispetto all’anno precedente): una cifra più che raddoppiata rispetto ai 65.029 connazionali che avevano lasciato il Paese nel 2005. È il dato principale che emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

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Nel periodo 2005-2014 ben 114.341 connazionali si sono trasferiti in Germania (17.236 nel 2014, +25,74% rispetto all’anno precedente), 84.955 nel Regno Unito (14.991 nel 2014, +6,65% rispetto all’anno precedente), 62.902 in Francia (10.334 nel 2014, +8,62% rispetto all’anno precedente), 73.613 in Svizzera (11.051 nel 2014, +4,88% rispetto all’anno precedente) e 39.687 in Spagna (4.701 nel 2014, +3,61% rispetto all’anno precedente). Nello stesso periodo di tempo 44.528 nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti (5.951 nel 2014), 19.305 in Cina inclusa Hong Kong (2.944 nel 2014), 11.510 in Australia (1.873 nel 2014) e 9.479 in Canada (1.307 nel 2014). A trasferirsi all’estero nel 2014 sono stati soprattutto giovani tra i 15 e i 34 anni: in tutto 51.906, con un incremento del 10,33% rispetto al 2013 e in numero più che raddoppiato rispetto al 2005 (quando erano stati 24.832). Le loro mete preferite sono state il Regno Unito (7.675 emigrati, +4,65% rispetto al 2013), la Germania (7.453, +27,49%), la Svizzera (4.242, +8,08%) e la Francia (3.714, +3.80%) e gli Stati Uniti (2.162, +10,48%).

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«Cresce costantemente negli ultimi anni il numero degli emigrati italiani – ha spiegato l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – e quel che preoccupa è l’elevato numero di giovani che scelgono di costruirsi un futuro lontano dal nostro paese. Negli ultimi dieci anni il numero di italiani under 35 che cercano fortuna altrove è più che raddoppiato: è certamente un segno di un mondo sempre più globale ma anche e soprattutto di un paese che non riesce a rappresentare un’opportunità per crescere e realizzarsi».

La famiglia in una società che invecchia

La famiglia in una società che invecchia

Nel contesto di un più vasto studio sulla “prassi globali per contrastare la povertà e migliorare l’equità”, la Banca Mondiale ha esaminato il tema “dell’invecchiamento e della solidarietà familiare in Europa” in un paper (Policy Research Working Paper No.7678) , diffuso, per ora, solamente in via telematica agli abbonati ai servizi dell’istituzione con sede a Washington. Il documento prende avvio dalla constatazione che “all’inizio del ventunesimo secolo”, le relazioni inter-generazionali rimangono un aspetto essenziale della crescita e della sostenibilità del modello sociale europeo.

Tramite una vasta rassegna della letteratura, vengono messi a confronto i differenti strumenti di “scambio intergenerazionale” attuati in Europa. Ne deriva una tassonomia, in base alla quale i Paesi europei sono divisi in tre gruppi: a) quelli nordici (tra cui vengono inclusi anche Francia e Belgio che hanno una strumentazione abbastanza simile a quelle degli altri della categoria); b) quelli meridionali (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e c) quelli dell’Europa centrale ed orientale aderenti all’Unione Europea. Una conclusione di rilievo: “l’intensità delle attività dei nonni” nei Paesi dell’Europa meridionale è tale da “rappresentare un’alternativa a servizi pubblici, spesso molto carenti per la cura dei bambini. Vivere insieme è anche una strategia utilizzata dalle famiglie per aiutarsi a vicenda”.

Inoltre, nei Paesi dell’Europa meridionale, le donne dedicano maggior supporto, e maggior tempo, alla cura degli anziani e dei mariti di quanto non facciano gli uomini, i quali invece forniscono maggiori aiuti economici ai figli. “I livelli di istruzione e di reddito” inoltre sono fortemente correlati alle tipologia di supporto familiare: contrariamente alle impressioni superficiali, sono le famiglie a reddito alto e medio alto a fornire più risorse e più tempo agli anziani, ai figli ed ai nipoti, mentre “il supporto informale” è molto debole nei ceti a basso reddito.

Il documento solleva, indirettamente, molti interrogativi per quanto attiene alla politica seguita dall’Italia. Non sarebbe preferibile un sistema tributario basato su quozienti familiari per meglio permettere quel supporto intra-familiare che sembra essere una delle caratteristiche del Paese? Misure come gli 80 euro ai dipendenti a basso reddito ed i 500 euro ai diciottenni (senza differenziazione di reddito o di ricchezza) sono efficienti ed efficaci e vanno nella direzione dove sta andando il resto d’Europa o ci distanziano ancora di più dalle “buone prassi” altrui?

Bolletta energetica: costi per le famiglie cresciuti del 25,56% negli ultimi cinque anni

Bolletta energetica: costi per le famiglie cresciuti del 25,56% negli ultimi cinque anni

Negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno visto crescere i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici del 25,56%: è questo il risultato di una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dei prezzi dell’energia elettrica per le famiglie in tutta Europa. L’analisi ha preso in considerazione i prezzi medi dell’energia fornita a consumatori domestici e il loro andamento dal 2010 ad oggi. Rispetto a cinque anni fa tra i 28 paesi oggetti del monitoraggio solo in sei nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-30,63%), Malta (-23,52%), Repubblica Ceca (-6,25%), Slovacchia (-4,24%), Cipro (-2,17%) e Svezia (-1,90%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti: + 56,65% in Lettonia, +51,96% nel Regno Unito, +47,91% in Grecia, +40,43% in Portogallo. Tra le grandi economia cresce l’onere per le famiglie anche in Spagna (+30,73%), Francia (+25,29%), Germania (+22,52%) e, come detto, Italia (+25,56%).

andamento energia

Nel nostro paese, quindi, il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da € 0,1943 per kWh del 2010 a € 0,2439 kWh del 2015. Stimando nel 2015 un consumo medio annuo per famiglia di 2.579 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 629€ su base annua. A livello europeo solo in Irlanda, Germania e Danimarca l’energia costa di più che nel nostro paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 203,61€ su base annua; 73,50€ se vivesse nel Regno Unito e 25,66€ se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: + 131,40€.

costo energia

Si tratta di costi comprensivi di tasse e accise che nel nostro paese rappresentano il 38,79% del prezzo finale. Un dato superiore sia alla media dell’Area Euro (37,85%) che dell’Unione Europea (32,62%). L’incidenza delle imposte è più elevata che da noi in Danimarca (68,38%), Germania (51,53%) e Portogallo (49,54%). Il fisco pesa meno nella bolletta delle famiglie in tutte le altre economie continentali: Regno Unito (4,76%), Spagna (21,37%) e Francia (34,10%).

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Come far decollare il Mezzogiorno?

Come far decollare il Mezzogiorno?

E’ molto che non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta, il “rapporto Amato” produsse una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti specifici.

Il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa su Le Imprese Industriali del Mezzogiorno include non solo una dovizia di statistiche ed analisi ma anche un paper di Giorgio La Malfa (intitolato “Per Il Rilancio delle Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi – essenzialmente uno per regione – poli di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti industriali. In particolare m questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a) collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità, collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile, agevolazioni fiscali.

Si può dire che non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi Economia Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese. Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto delle nuove condizioni dell’economia internazionale?

Debiti Pa: ImpresaLavoro al Tg5

Debiti Pa: ImpresaLavoro al Tg5

Il Tg5 commenta i dati del Centro Studi ImpresaLavoro sullo stock dei Debiti che la Pubblica Amministrazione ha con le imprese italiane e sul suo costo per le nostre aziende.

Gli “enti inutili” vanno soppressi

Gli “enti inutili” vanno soppressi

di Massimo Blasoni – Metro

In attesa dell’esito dei ballottaggi nei Comuni più importanti, proviamo a ipotizzare un sistema istituzionale non solo senza Province ma che si articoli in appena sei Regioni (invece di 20) e mille Comuni (invece di 8.100). La soppressione di un così grande numero di enti renderebbe possibile la gestione dei servizi e delle funzioni oggi appannaggio dei vari livelli del governo locale? Sono convinto di sì ed è quanto ho provato a spiegare nel libro “Privatizziamo!”.

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Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Salvatore Zecchini * – Il Foglio

Il populismo di proposte quali il reddito di cittadinanza di cui ha parlato il Foglio ieri e la recente pubblicazione del volume di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La Buona spesa – Guida operativa alla spending review” (edito dal Centro studi ImpresaLavoro) riaccendono l’attenzione sulla spesa pubblica. Questa ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso, con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha oscillato tra il 49,1 per cento del Pil nel 2011 e il 51,2 per cento nel 2014 (50,5 nel 2015), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota serve a remunerare il debito pubblico (4,2 per cento del Pil nel 2015), un’altra a migliorare il potenziale economico attraverso investimenti in capitale fisso (2,3 per cento nel 2015) e capitale umano (8 per cento per istruzione e ricerca), e un 2 per cento circa alla difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile attorno al 42 per cento del Pil. Ad eccezione della spesa per interessi, che è guidata dalla Banca centrale europea e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa quella sociale, si presta logicamente a una revisione, anche quella definita come “non aggredibile”. Infatti, ben poco rileva che gran parte abbia carattere obbligatorio, perché nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Dal 2011 i governi hanno dovuto intraprendere la strada della revisione sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’Ue e della Bce, il rischio di insostenibilità del debito in presenza di stagnazione o recessione economica, e l’acuta intolleranza di imprese e famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale. Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 per cento del Pil dal 2012 al 2015 (43,5 per cento nel 2015), mentre la spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente. Le quattro esigenze, pur essendo distinte, sono collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Tuttavia, ridurre la spesa pubblica in una fase in cui famiglie ed imprese tendono a spendere meno può apparire come una mossa azzardata e controproducente per la crescita. Nondimeno, questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più efficaci per la crescita di medio periodo, ovvero per la competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse delle nuove generazioni. Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia: una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce, delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è percorribile e in quali tempi? Se una riforma costituzionale della politica, delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente, i tempi indubbiamente sarebbero lunghi. Occorre, pertanto, iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito assume un ruolo fondamentale la valutazione economica, benché sia resa molto ardua dalle carenze di informazione e di competenze tecniche nella Pa. Non si sa ancora abbastanza per valutare la gestione degli enti decentrati, dei servizi pubblici locali, società partecipate, meccanismi delle commesse pubbliche, performance delle scuole, gestione di ospedali, Asl, università, etc.. La capacità di valutare della Pa, inoltre, è limitata dalla scarsa conoscenza delle metodologie, mentre l’impiego di esperti indipendenti è visto con timore.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 miliardi nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 miliardi del 2016 ai 28,7 miliardi del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale più che su Regioni e Comuni e, in particolare, su consumi intermedi e personale, toccando sia le retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del Def si desume anche che parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello presente della spesa ma sulla sua espansione futura.

A parte i dubbi sulla fattibilità, i tagli si accompagnano a nuove spese, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, Regioni e Comuni sono toccati meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina accumulando debiti occulti, con ritardi nei pagamenti ai fornitori o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni di ogni singola voce di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali, sulla riorganizzazione della Pa, al centro come in periferia, sulla sua responsabilizzazione e sulle sanzioni. La valutazione non può, d’altronde, esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento. Diversi altri strumenti potrebbero essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla determinazione della leadership nel ridurre sostanzialmente spesa e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa che è carente nella nostra particolare democrazia.

* Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico di ImpresaLavoro

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

di Salvatore Zecchini*

La recente pubblicazione del Documento di Economia e Finanza del Governo, nonché del libro di Pennisi e Maiolo “La buona spesa”, riaccende l’attenzione sull’urgenza di ridurre la spesa pubblica, in particolare quelle parti frutto di sprechi ed inefficienze, al fine di acquisire margini per interventi mirati ad accrescere il potenziale produttivo del Paese.

La spesa pubblica ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha costantemente oscillato tra poco sotto (49,1% nel 2011) e poco sopra il 50% del PIL (50,5% nel 2015; 51,2% nel 2014), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito rispetto alle imprese, famiglie e settore estero.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota tra il 4,8 e 4,2 % del PIL è diretta alla remunerazione del debito pubblico (4,2% nel 2015) e una quota attorno al 2% del PIL (2,3% nel 2015) è destinata alla formazione di capitale nella forma di investimenti fissi utili per migliorare il potenziale di crescita. Inoltre una quota pari all’8% serve per investire in capitale umano attraverso il sistema di istruzione e ricerca, e un 2% circa in spese per la difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile negli ultimi 3 anni, collocandosi nell’ordine del 42% del PIL (42,2% nel 2015).

Lasciando da parte la spesa per interessi, che è guidata dalla BCE e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa la spesa sociale, si presta logicamente a passare sotto l’esame di una revisione di spesa, anche la spesa definita come “non aggredibile”, che Piero Giarda ha stimato in 500 mld circa. Infatti, ben poco rileva che una parte sostanziale della spesa ha carattere obbligatorio, perché all’esecutivo nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Una volta definito l’ambito di revisione della spesa, bisogna affrontare il problema della finalità della revisione, perché questa ne condiziona e delimita il campo di applicazione, la portata e le modalità. Revisione non vuol dire tagli, specialmente se indiscriminati, ma ottenere lo stesso risultato, o uno migliore, al minor costo.

Dal 2011 i governi hanno perseguito la strada della revisione di spesa sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’UE e della BCE, il rischio di insostenibilità del livello di debito accumulato in un contesto di tendenza alla stagnazione se non all’arretramento della produzione di reddito, e l’acuta intolleranza mostrata da gran parte delle imprese e delle famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale.  Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 % del PIL dal 2012 al 2015 (43,5% nel 2015), mentre il livello in valore assoluto della spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente.

Quindi, attualmente la revisione della spesa è dettata da quattro esigenze distinte ma collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Il DEF usa termini meno espliciti, o eufemismi, parlando di controllo della spesa e sua razionalizzazione per acquisire margini per la riduzione delle imposte.

Ridurre la spesa pubblica in una fase in cui si evidenziano carenze di domanda aggregata, particolarmente nei settori imprese e famiglie, può apparire  come una mossa azzardata e controproducente per la crescita.

Questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra, tuttavia, né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché in via di principio si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più produttive di effetto sulla crescita di medio periodo, ovvero su competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività tra i dipendenti pubblici, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse supremo delle nuove generazioni.

Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista in una economia apparentemente di mercato, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia. Una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è o no percorribile, e in quali tempi? Una riforma costituzionale della politica, dell’articolazione delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente per un paese così piccolo, anche se disomogeneo, come il nostro. I tempi indubbiamente sarebbero lunghi; tuttavia, occorre iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito primario di revisione profonda della spesa assume un ruolo fondamentale la valutazione economica. Le sue modalità e le sue precondizioni richiedono tuttavia diverse precisazioni.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 mld nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 mld del 2016 ai 28,7 mld del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale piuttosto che sugli enti decentrati (Regioni e Comuni) e, in particolare, sui consumi intermedi e sul personale, toccando sia l’ammontare delle retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del DEF si desume anche che una parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello della spesa ma sulla sua espansione futura. Alla luce delle reazioni tra i settori colpiti e dalle pronunce della magistratura sui ricorsi sorgono, nondimeno, dubbi sulla realizzabilità di tale programma. Se, invece, si attuasse sarebbe un grande risultato perché per la prima volta si arriverebbe a tagliare circa 100 mld in 5 anni.

Tuttavia, ai tagli si accompagnano nuove spese programmate, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, le Regioni e i Comuni sono coinvolti meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina dei tagli accumulando debiti occulti, come i ritardi nei pagamenti ai fornitori, o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni delle singole voci di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali e sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, al centro come in periferia. Donde la necessità di una profonda riforma istituzionale. Tagli lineari di spesa sono invece inaccettabili anche sul piano politico, sebbene siano stati usati in questi anni.

Né si possono limitare i risparmi solo agli acquisti di beni e servizi per consumi intermedi, ma devono investire ogni comparto di spesa. Una giustificazione si trova nella analisi fatta sotto il governo Monti con il contributo di Giarda, che arrivava a stimare un eccesso di spesa tra il 20% e il 30% del totale aggredibile, ossia ai valori del 2015 si tratta di riduzioni tra 60 e 90 miliardi.

Le difficoltà di una riduzione oculata di spese stanno, oltre che sul piano degli interessi di parte, nella carenza delle condizioni per una valutazione accurata di ogni singola voce o ente, in quanto vi sono ancora molti vuoti di conoscenza. Non si sa ancora abbastanza per una valutazione sulla gestione degli enti decentrati, sui servizi pubblici locali, sulle società partecipate, sui meccanismi delle commesse pubbliche, sulla performance delle scuole, sulla gestione degli ospedali etc..

Per una valutazione adeguata degli investimenti bisognerebbe predisporre l’obbligo del beneficiario a fornire una serie di informazioni che sono essenziali per una valutazione in itinere ed ex-post. Le valutazioni che si fanno finora hanno un carattere di formalità cartolare, piuttosto che di esame dell’efficienza, dei risultati e dell’impatto economico.

Le valutazioni ex-post degli investimenti e della spesa corrente sono quasi del tutto assenti e nei pochi casi in cui esistono, non sono rese pubbliche se non raramente. I politici non amano che si dimostri i difetti delle loro scelte d’intervento e le inefficienze di gestione. Di conseguenza, viene a mancare quel processo di apprendimento dagli errori del passato, che permette di migliorare l’azione pubblica per il futuro.

Una difficoltà della valutazione sta anche nella scarsa conoscenza della metodologie di valutazione da parte dei funzionari pubblici. Un’altra risiede nei meccanismi di spesa e nell’organizzazione  dell’amministrazione. La valutazione non può esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento.

Come porre rimedio a questi ostacoli attraverso una riduzione di spesa su base valutativa? La lotta alla corruzione e la centralizzazione degli acquisti, sebbene importanti, appaiono come strumenti di parziale efficacia. Ad esempio, gli acquisti di un ente ospedaliero per forniture varie possono essere esenti da fenomeni corruttivi e rispondere ai criteri standard della centralizzazione, ma risultare allo stesso tempo inefficienti o inefficaci, nel caso in cui opzioni alternative consentissero di curare il paziente meglio e a costi inferiori.

Occorrerebbe avere un processo frequente di rivalutazione delle scelte di spesa, condotta da organismi indipendenti con pieno accesso alle informazioni necessarie e resa perfino pubblica. Questo è lo spirito dello zero-base budgeting.

Occorrono anche regole vincolanti in tal senso, che si applichino a tutta l’amministrazione pubblica, inclusi Regioni e Comuni. Ciò implica una piena responsabilizzazione dei centri di spesa e un forte vincolo finanziario tendente a fare attuare un programma di riduzioni di spesa a parità di prodotto su un arco pluriennale. Al tempo stesso, occorre penalizzare seriamente coloro che hanno consentito gli scostamenti di spesa e le istituzioni di appartenenza. Si sono già visti, in particolare, diversi modi di aggirare i vincoli, spostando spese in capo a società pubbliche ed espandendo i debiti verso imprese e banche.

Anche la valutazione d’impatto dovrebbe guidare le scelte, possibilmente sperimentando tecniche nuove, come la stima di soluzioni contro-fattuali, o la selezione casuale su piccola scala dei destinatari degli incentivi agli investimenti all’interno di un gruppo di progetti ritenuti eleggibili per le agevolazioni.

Naturalmente, questa opera di razionalizzazione richiede un massiccio sforzo di formazione dei decisori pubblici in materia di valutazione e gestione della spesa, con un parallelo sviluppo di metodologie adeguate e certificate nella loro efficacia. Paesi come la Germania e il Regno Unito da anni percorrono questa strada.

Altri strumenti potrebbero parimenti essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla volontà e determinazione della leadership del Paese di ridurre sostanzialmente entrambi, spesa pubblica e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa volontà che è soprattutto assente nella nostra particolare democrazia.

 *Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico ImpresaLavoro

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il Foglio dell’8 giugno 2016.

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni

di Gemma Mantovani – Leoni Blog

“This is a Budget that gets investors investing, savers saving, businesses doing business; so that we build for working people a low tax, enterprise Britain; secure at home, strong in the world. I commend to the House a Budget that puts the next generation first.” Sono queste le ispirate e convinte parole, sintesi del manifesto ideale – politico che concludono il discorso di George Osborne, attuale Cancelliere dello scacchiere britannico (il nostro ministro delle finanze) e che motivano il suo programma quinquennale di spending review presentato lo scorso marzo che ha come obiettivo portare il debito pubblico inglese al 36% del PIL nel 2020 (www.gov.uk, The Budget speech in full). Il discorso ed il documento cartaceo è rinchiuso dall’epoca di William Ewart Gladstone nella red box più famosa di tutte, il budget box, elegante 24 ore di pelle rossa. L’idea forte fortissima di George Osborne e del Governo che rappresenta è quella dell’Enabling State cioè l’idea che lo stato principalmente e preliminarmente autorizza e delega i cittadini a dispiegare innanzitutto le proprie capacità e risorse nella sfera economico sociale. Ed è questa la convinzione forte e liberale di “Stato sussidiario” rispetto alla primaria azione dei cittadini che anima e sta alla base delle scelte di spending review proposte.

Sulla spending review come soluzione a tutti i mali del debito nostrano si sono scritti fiumi di parole ed alla fine è risultata una ricetta fuori da un menù, ridotta a settoriali operazioni di chirurgia finanziaria fingendo di non vedere lo stato di salute generale del paziente, lo Stato, che con un debito pubblico tra i più alti del pianeta è molto, molto malato. Ma la spending review è già superata, il governo è, sul piano lessicale, già oltre. Quando lo Stato deve proprio spendere, come può essere nel caso delle infrastrutture, il concetto di revisione di spesa prende ora il nome di revisione dei progetti. Di project review si parla nell’Allegato sulle strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica nel documento economico finanziario 2016. La project review è una sottospecie o, se si preferisce, uno dei tanti aspetti della revisione, meglio, del controllo della spesa, la codificazione della naturale ragionevolezza del saper mettere in discussione affrontabilità finanziaria e utilità economica dei progetti infrastrutturali che il più delle volte sedimentano per anni. Come osservato da commentatori esperti, se l’intenzione è lodevole perché si esplicita la volontà di valutare tutte le opere in modo omogeneo, selezionarle in modo trasparente e viene delineata la volontà di procedere a una “project review” delle scelte pregresse in funzione delle mutate condizioni di mercato, si continua a permettere di definire scelte progettuali a priori il che, in molti casi, può contraddire il concetto di valutazione e, pertanto, di investimento di denaro pubblico oculato.

Proprio il saper utilizzare validi metodi di valutazione trasparenti è strumento essenziale per spendere meno e spendere bene. Nella recente pubblicazione “La buona spesa “di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (ed. Centro studi ImpresaLavoro) vengono con precisione e puntualità scientifica spiegate le varie tecniche, criteri, metodi e procedure di valutazione possibili, con un buon numero di esempi concreti, perché, appunto, la spesa pubblica diventi oltre che inferiore, anche migliore, misurabile, efficiente, e dunque buona.

La Red Box è il simbolo di una politica che sa esplicitare con estrema chiarezza e trasparenza le ragioni delle sue scelte, condivisibili o meno, le convinzioni ideali alla base delle sue “reviews”; essa conserva non solo numeri, proiezioni e percentuali di risparmio ma anche l’idea di Enabling State, di “big society e small government” del rapporto stato – cittadino che rappresentano il fondamento di quelle scelte di quel governo di revisione della spesa. Ma si sa, nel nostro paese di spending review non parla il Ministro delle Finanze: abbiamo creato entità satellitari al pianeta governo, un po’ alieni e un po’ fantasmi, i commissari. Se certamente le “reviews” sono diventate più che un simbolo uno slogan ad effetto, è del tutto oscura l’idea politica che le sostiene. Non è certo quello del nostro Ministro delle Finanze che nelle recentissime dichiarazione di premessa al DEF 2016 (www.mef.gov.it) ha dichiarato: “Il Governo ritiene inopportuno e controproducente adottare una intonazione più restrittiva di politica di bilancio”. Chiediamo agli economisti cosa sia “l’intonazione” di una politica di bilancio. Intuiamo sia qualcosa di lontano appunto anni luce dal contenimento del debito pubblico.