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Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In Italia si è ripreso a discutere con gusto di politica industriale. La Confindustria non smette di battere il chiodo, le proposte di Romano Prodi suscitano sempre grande interesse, il libro dell’economista Marianna Mazzuccato sul ruolo dello Stato nell’innovazione divide accademici e addetti ai lavori, il ministro Federica Guidi ha promesso novità. Il guaio però è che la produzione di parole sovrasta i fatti: la stragrande maggioranza dei provvedimenti adottati dagli ultimi governi per l’innovazione, la ricerca, la crescita di dimensione e la nuova imprenditorialità è rimasta al palo. Il Centro studi della Cna ha steso un’impietosa catalogazione delle misure inattuate ed è arrivato ad elencarne dieci, tutte entrate in vigore tra il 26 giugno 2012 e il 1 gennaio 2014 ma da allora ancora in attesa dei decreti attuativi.

I più vecchi tra i provvedimenti “mai nati” riguardano finanziamenti per progetti di ricerca e sviluppo definiti «di rilevanza strategica» e il credito d’imposta per l’assunzione di personale ad alta qualificazione. Sono stati varati dal governo Monti e in teoria avrebbero dovuto festeggiare proprio ieri il secondo compleanno ma al primo manca il solito decreto di attuazione del ministero dello Sviluppo economico (Mise) e il secondo è fermo perché non è stata ancora realizzata la piattaforma informatica necessaria. Realizzata la stessa comunque ci vorrà un altro decreto per definire procedure e modulistica (!).

I provvedimenti targati 2013 e ancora nel limbo sono cinque e sono stati emessi dal governo Letta al tempo dell’elogio del cacciavite. Il primo risale al giugno e si autodefinisce senza alcuna modestia «interventi straordinari a favore della ricerca per lo sviluppo del Paese». Le risorse per farlo camminare e tener fede al suo nome devono essere ancora individuate e si attende in merito un decreto, stavolta, del ministro dell’Istruzione. I tutti i casi citati i beneficiari avrebbero dovuto essere per lo più le piccole imprese, start up innovative e spin off universitari. Che aspettano e sperano. Datano invece dicembre 2013 altre quattro misure che riguardano credito d’imposta, voucher e mutui agevolati per gli investimenti di nuove attività. In tutti questi casi quello che si aspetta è ancora una volta il decreto del Mise.

Chiudono la lista delle doglianze messa nero su bianco dalla Cna altri provvedimenti entrati in vigore il primo giorno dell’anno in corso. A cominciare dal fondo che dovrebbe sostenere le associazioni temporanee e i raggruppamenti di imprese per passare all’istituzione di una sezione speciale di garanzia per i progetti di ricerca e di innovazione rivolti alle Pmi. In entrambi i casi, manco a dirlo, si attende un fantomatico decreto del Mise così come per il provvedimento di rafforzamento del patrimonio dei Confidi. Per onestà bisogna riconoscere che alcune misure come la nascita dei minibond e l’incentivazione degli investimenti in macchinari (la nuova Sabatini) sono entrati in funzione ma ahinoi rappresentano la più classica delle eccezioni. Due autentiche mosche bianche. E comunque, più che un programma coerente di politica industriale seppur realizzato a tranche, la somma dei provvedimenti ha le sembianze di una lotteria. L’azione governativa appare sminuzzata e a effetto ritardato e, presa nel suo complesso, non è minimamente in grado di indirizzare le scelte di investimento dei singoli nella direzione voluta, tutt’al più accompagna ex post scelte che gli imprenditori hanno già maturato e attuato. Poi nei convegni si trova sempre un dirigente del ministero che si straccia le vesti per il nanismo delle nostre imprese.
Ps. C’era una volta il garante delle Pmi. Esiste ancora?

Balordi del debito

Balordi del debito

Davide Giacalone – Libero

La sola cosa che sbalordisce è che ci siano degli sbalorditi in circolazione, a cominciare dal ministro dell’Economia. Non c’era una sola possibilità al mondo che la Commissione europea non aprisse una procedura d’infrazione, per gli enormi ritardi con cui lo Stato italiano paga i propri debiti verso i fornitori privati. Non c’era perché la conferma di quei ritardi era certificato dal governo e dalle autorità italiane. Perché nessuno si disse sbalordito quando il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostenne che quei debiti sarebbero stati pagati a partire dal primo trimestre del 2015? Non si accorsero che era cosa del tutto diversa da quanto aveva promesso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi? Noi, qui, lo facemmo subito notare. Chiedendo quel che continuo a chiedere: che fine ha fatto l’idea di utilizzare la Cassa depositi e prestiti quale garanzia bancaria per quei debiti? Lo hanno fatto gli spagnoli, lo ha proposto e ripetuto il presidente della Cdp, Franco Bassanini, lo aveva annunciato il capo del governo. Solo Pier Carlo Padoan non se n’era avveduto, sbalordendo.

Ma non basta: il 30 maggio scorso, in occasione delle considerazioni finali, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto, papale-papale, che quei debiti ammontano ancora a 75 miliardi (da 90 che erano stati stimati, e già è increscioso che si proceda a stime, non sapendo nessuno a quanto ammonta il totale, perché non si sa quali e quante voci sommare). Posto che i pagamenti fatti erano stati resi possibili da uno stanziamento del governo Letta, mettete assieme la cifra della Banca d’Italia alle dichiarazioni di Delrio e giungerete alla medesima conclusione cui è arrivata la Commissione. Padoan non aveva sentito, o non sbalordiva per buona creanza? Dato, allora, che lo Stato italiano è il peggiore pagatore d’Europa; che i tempi dei pagamenti dovrebbero essere di 30 giorni (60 solo in casi eccezionali); che quelli reali italiani sono fra sei e sette volte più lunghi; che si riconosceva l’incapacità di accorciarli, semmai solo di ridurne parzialmente l’ammontare; era inimmaginabile che la procedura d’infrazione non fosse innescata.

Veniamo alle colpe di Antonio Tajani, commissario europeo uscente ed esponente di Forza Italia rientrante. Confesso di non avere mai capito in base a quale meccanismo egli abbia più volte sostenuto che il pagamento di quei debiti poteva non essere contabilizzato nel deficit. Sarà mia incapacità, ma non mi convinceva. Sta di fatto, però, che quella tesi è stata sostenuta, da commissario, quando insediati erano governi non diretti dal suo capo politico. Di ieri, di oggi e di domani. A nessuno, in Forza Italia o altrove, fortunatamente, è venuto in mente di accusarlo di tradimento o scarso patriottismo di partito, e se avesse avuto ragione sarebbe stato un gran bene, perché i fornitori dello Stato si sarebbero trovati con soldi veri nelle casse. Ma accusarlo di scarso amor patrio perché prende atto che nulla si è fatto e si piega all’avvio della procedura d’infrazione, è grottesco. Tale accusa, oltre tutto, viene lanciata nello stesso giorno e sulle stesse pagine che annunciano il ribadito accordo sulle riforme costituzionali. Può darsi che Padoan si occupi solo di numeri, ma, a parte che non tornano, ammetterà che il suo sbalordirsi è balordo assai.

Tutto ciò senza dimenticare il punto centrale: lo Stato non riesce a pagare perché ha difficoltà di cassa e si barcamena nel tentativo di non sfondare i parametri (e fa bene, perché di tutto abbiamo bisogno, tranne che di pompare altro debito), ma ciò avviene giacché non riesce a tagliare le spese. Quella è la questione decisiva. Noi, che siamo personcine ragionevoli, non ci permetteremmo di farne una colpa esclusiva del governo in carica, ben consapevoli delle difficoltà. Ma è il governo stesso che s’insediò sostenendo che avrebbe pagato tutto e subito, nonché d’essere determinato a quei salutarissimi tagli. Invece: fumo tanto e arrosto nisba. Chiudano la bocca allocchita e asciughino i bulbi piagnucolosi, quindi, e la riaprano per farci sapere quel che seriamente vedono: tempi, modalità e quantità dei pagamenti da farsi.

La pietra al collo

La pietra al collo

Davide Giacalone – Libero

22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).
Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23 ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.
Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? Perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. È così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.
Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).
C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.