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Il mistero della fede sulla Tasi e la Chiesa

Il mistero della fede sulla Tasi e la Chiesa

Massimo Giannini – La Repubblica

D’accordo, va tutto bene. L’adolescenza nei boy scout e la messa domenicale da chierichetto. La fine delle ideologie e lo “sfondamento” nella mitica area moderata di centro. Ma c’era davvero bisogno che il premier riformatore Matteo Renzi consentisse uno sconto così generoso alle scuole cattoliche e alle cliniche private? L’esenzione dalla Tasi e dall’Imu, della quale beneficeranno questi istituti, è difficile da spiegare. Non è una questione di gettito (che pure non sarebbe trascurabile, visto che l’Erario ci rimetterà svariate centinaia di milioni). Ma quello che conta, ancora una volta, è il segnale che il governo lancia ai contribuenti. Un segnale pessimo, improntato all’ipocrisia e all’iniquità. C’è ipocrisia perché, con il patetico obiettivo di giustificare il misfatto, un sottosegretario all’Istruzione come Toccafondi (non a caso ciellino) sostiene che «le scuole private sono trattate come le pubbliche», e nel goffo tentativo di ridimensionare la portata dell’esenzione un sottosegretario all’Economia come Baretta ci racconta che le cliniche «pagheranno per l’uso delle sale o delle stanze in forma privata». Un’offesa alla sua e alla nostra intelligenza: che e come stabilirà che dentro una clinica qualsiasi quella determinata stanza è “ad uso privato” e quell’altra è “ad uso pubblico”? C’è soprattutto iniquità perché questa vocazione “francescana” dello Stato, che spinge il pubblico ad indossare il giusto saio della spending review ma allo stesso tempo a cedere un pezzo del suo mantello al privato, si verifica proprio nel momento in cui i cittadini “normali” sono sottoposti a una tosatura micidiale, almeno sul fronte immobiliare.

Conviene ricordare un po’ di numeri. Mentre scuole e cliniche private non pagano, le famiglie già quest’anno tornano a pagare una Tasi che costerà in media 240 euro, contro i 267 euro medi della vecchia Imu in vigore fino al 2012. Tra quelle che hanno deliberato le nuove aliquote, dodici città capoluogo hanno imposto una Tasi più alta dell’Imu. Si va dai 468 euro a Torino ai 439 euro di Genova, dai 430 di Milano ai 410 di Roma. La confusione è totale. La Tasi, Comune per Comune, avrà almeno 8.092 applicazioni diverse e più di 75.000 combinazioni possibili. L’unica certezza è la stangata. Anche perché il gioco delle detrazioni è calcolato in proporzione alle rendite e tra non molto, con l’aggiornamento di un Catasto fermo agli anni Cinquanta, i valori degli immobili si moltiplicheranno in qualche caso fino a 800 volte. A quel punto il bagno di sangue fiscale sarà inevitabile. Il mattone, che un tempo era una sicurezza, torna ad essere una iattura. Ma resta un mistero della fede: perché questa Quaresima, che vale per tutti gli italiani, non debba valere per la solita Chiesa cattolica, apostolica, romana?

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Francesco De Dominicis – Libero

Da un premier che vive di smartphone e tablet non se lo sarebbe aspettato (quasi) nessuno. Eppure, Matteo Renzi, l’alfiere della modernità, sta per dare una clamorosa stangata a telefoni cellulari, tv, chiavette usb e qualunque prodotto hi tech abbia un supporto di memoria digitale. La stangata è azionata in tandem con la Siae (l’ente che gestisce i diritti d’autore) ed è di fatto nascosta e per questo ancora più odiosa. Quanto pagherà una famiglia in un anno? Dipende, ovviamente, dal volume degli acquisti: ma se si comprano, nel giro di 12 mesi, un paio di smartphone, un televisore e un hard disk l’esborso può anche superare i 100 euro; a 20 euro si arriva facilmente, con una chiavetta usb e un hard disk esterno.
La manovra passa attraverso l’aumento del cosiddetto «equo compenso» per la copia privata, le riproduzioni ad uso personale di musica e film su apparati come smartphone e tablet. Un balzello che esiste da un po’ e che il governo ha deciso di inasprire sensibilmente. Per chi compra equivale a una tassa «una tantum». Che poi non è nemmeno il primo intervento volto ad alzare le tasse: solo giovedì è spuntato il rincaro delle accise sulle sigarette, dal primo luglio è aumentata la tassazione sulle rendite finanziarie (dal 20 al 26 per cento) e col decreto sugli 80 euro è salito pure il prelievo sui fondi pensione.
Insomma, l’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Firenze ha una certa confidenza con i tributi. Dell’intervento sulla «copia privata» si discute da settimane, ma ieri il sito specializzato Dday.it ha diffuso i dettagli dell’ultima bozza allo studio del ministro per la Cultura, Dario Franceschini. «Copia privata» è il diritto che tutti i cittadini hanno di copiare, appunto, qualsiasi contenuto acquistato legalmente su altri apparecchi di sua proprietà. Ed è proprio su questo teorico trasferimento di dati da un supporto a un altro che si inserisce la gabella, che viene prelevato dal fisco, a prescindere dall’eventuale riproduzione, al momento dell’acquisto. Ma il giochetto non è finito perché sull’importo finale scatta anche l’Iva: la tassa sulla tassa.
Sta di fatto che la nuova bozza porta alla luce un raddopppio rispetto ai vecchi importi. Si parte con gli smartphone e i tablet (finora esclusi dal salasso): fino a 8 gigabyte di memoria il copenso è di 3 euro, fino a 16 gb di 4 euro, fino a 32 gb di 4,80 euro e oltre i 32 gb di 5,20 euro.
Non è finita. Sotto la scure finiscono anche i tv, compresi quelli sprovvisti di hard disk finora esclusi dal pagamento dell’obolo Siae che è pari a 4 euro. Per i computer l’importo è stato fissato a 5,20 euro oltre il doppio rispetto all’attuale tariffa che prevedeva un doppio livello: 2,40 euro (per pc con masterizzatore) o 1,90 euro (per tutti gli altri). In controtendenza il compenso per i telefonini che scende da 0, 90 euro a 50 centesimi, ma ormai gli apparecchi cellulari «base» non si vendono più. Per gli hard disk il discorso è articolato: finora erano colpiti solo i supporti esterni (0,02 euro per gb fino a 400 gb e 0,01 euro per gb oltre 400 gb), mentre adesso la «scure» cade pure su quelli potenzialmente integrabili nei pc. Il compenso diventa di 0,01 euro per gigabyte con un massimo di 20 euro. La riduzione, tuttavia, è solo apparente perché il raggio d’azione si estende a vista d’occhio. Per gli hard disk con uscite audio-video le tariffe sono più complesse e oscillano da 4,51 euro a 14,81 euro. Mentre va da 3,22 euro a 32,20 euro la forchetta per i personal video player. Per quanto riguarda le memorie o gli hard disk integrati in videorgistratori, decoder o tv si va da 6,44 euro a 32,20 euro. Vengono colpiti anche vecchi supporti come audiocassette, vhs, cd e dvd (con prelievi contenuti, attorno ai 10 centesimi) e pure supporti più evoluti, come i bluray disc (con prelievi pari a 0,20 centesimi ogni 25 gb).
Le categorie sono divise. Da una parte Confindustria digitale, per voce del presidente Elio Catania, si è detta pronta a dare battaglia. Dall’altra il suo omologo Marco Polillo, di Confindustria Cultura, che aveva detto di voler difendere il decreto. «Siamo pronti a fare ricorso: l’aumento è ingiustificato e non tiene conto dell’evoluzione delle tecnologie e delle mutate abitudini di utilizzo da parte dei consumatori, con lo streaming e il cloud storage ormai a farla da padroni rispetto alla copia privata, dando un segnale negativo per lo sviluppo tecnologico a fronte di un impegno in questo senso del Governo Renzi» aveva dichiarato Catania, pur schierandosi a favore della tutela del diritto d’autore e della lotta alla pirateria. Secca la replica di Polillo: «L’adeguamento del compenso è un processo in atto in molti Stati membri» della Ue. Come dire: ce lo chiede l’Europa, pure questa mazzata.

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Roberto Perrotti – Il Sole 24 Ore

Matteo Renzi è andato al Parlamento europeo e ha fatto quello che si era ripromesso e che gli suggeriva il suo enorme fiuto politico: «Battere i pugni sul tavolo in Europa», come tanti vogliono in Italia. Ha suscitato la reazione di parlamentari, ministri e banchieri centrali tedeschi: che cosa c’è di meglio per la sua immagine in Italia?
Compiuta la missione, bisogna però tornare alle cose concrete. Renzi deve programmare la strategia per i prossimi anni di governo. Per farlo, deve lasciar perdere le solite diatribe tra filo- e anti-tedeschi, europeisti e anti-europeisti, fautori del rigore e fautori della flessibilità.

Deve semplicemente chiedersi: supponiamo che non esistano il Trattato di Maasticht, il Patto di stabilità e crescita, il Six- e il Two-pack, il Fiscal compact: che cosa vorrei fare per l’Italia nei prossimi tre anni? Le regole europee, diciamo la verità, sono quasi irrilevanti. Se l’Italia sfora il 3 per cento del disavanzo, o non riduce il rapporto debito/Pil del 5 per cento l’anno, gli altri paesi non possono mandarle i carri armati. Qualche burocrate della Commissione avrà il suo giorno di gloria bacchettando il governo italiano, qualche politico tedesco o finlandese rilascerà una dichiarazione, e finirà tutto lì. Chiunque abbia letto il testo dei trattati attentamente sa che non c’è nient’altro di importante che può succedere (eccetto, alla fine di una trafila lunghissima e che non verrà mai intrapresa, una multa massima dello 0,1 per cento del Pil).

Personalmente, credo che la risposta che Renzi si darà alla domanda di partenza sarà molto semplice. L’Italia è strangolata dalle tasse: bisogna ridurle.
Ma come? Renzi, anche perché giustamente preso dalle riforme istituzionali, ha scelto un approccio rischioso: tagliamo prima le tasse, e poi si vedrà. È rischioso, perché i governi italiani hanno una lunga tradizione di annunci roboanti di tagli di tasse, che poi si sono dovuti rimangiare. Ancora peggio se taglio delle tasse ma contemporaneamente ne alzo altre, come purtroppo è successo.

L’unica strategia che funziona e che dimostra una decisa discontinuità con il passato è quella di ridurre le tasse assieme alla spesa pubblica. È un approccio lento, perché per ridurre la spesa pubblica ci vuole tempo. Ma ha anche l’enorme vantaggio che crea, per la prima volta in Italia, un gruppo di pressione, una constituency, in favore della riduzione di spesa, sia nel paese sia all’interno del governo. Per attuare questa strategia, Renzi deve rinunciare all’illusione che la politica di bilancio possa fare uscire l’Italia dalla crisi con il botto. La famosa «scossa» è un’illusione pericolosa. Certo, non c’è niente di più facile che creare una crescita effimera con la politica di bilancio, riducendo le tasse di 50 miliardi o aumentando la spesa di altrettanto. I paesi sudamericani negli anni 80 e 90 erano maestri in queste operazioni: ogni nuovo presidente, appena eletto, le faceva, e poi le ripeteva a un anno dalla fine del mandato per cercare di essere rieletto. All’inizio funzionava, ma poi arrivava il redde rationem e il paese si ritrovava in ginocchio. E si fa sempre l’esempio dei tagli alle tasse di Ronald Reagan, all’inizio del suo mandato: ma ci si dimentica che poco dopo fu costretto a rialzarle più di prima, perché non era stato capace di ridurre la spesa (soprattutto quella militare).

Se vuole rendere un servizio al paese, e a se stesso, Renzi deve prenderesi un orizzonte un po’ più lungo. Non deve cedere alle sirene che gli suggeriscono di tagliare trenta miliardi di tasse subito, tanto poi i tagli di spesa si troveranno. Dimostri invece, per la prima volta in Italia, che la riduzione della spesa pubblica concreta, seria, vera, continua, duratura, è possibile. Sarà un lavoro lungo, oscuro, puntiglioso. Per gli economisti è facile dire: «Bisogna tagliare trenta miliardi di spesa pubblica», senza dire dove e come. Nella realtà si tratta di trovare venti milioni (non miliardi!) qui e trenta là, giorno dopo giorno. Per questo il lavoro del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e dei suoi collaboratori è fondamentale e dev’essere la priorità del governo.

Liberalizzazioni flop: bollette sempre più care

Liberalizzazioni flop: bollette sempre più care

Antonio Signorini – Il Giornale

Le liberalizzazioni italian style non hanno quasi mai favorito i consumatori. Negli ultimi dieci anni i costi dei servizi hanno registrato aumenti che è difficile non spiegare con oligopoli di fatto, in particolare nei settori delle ex aziende pubbliche, e abusi di posizioni dominanti. Ieri la Cgia di Mestre ha calcolato aumenti record dal 2003 a oggi. Quasi tutti superiori al tasso di inflazione registrato nello stesso periodo. Per fare un esempio, l’acqua è aumentata del 85,2%. Percentuale sorprendentemente simile a quella dei rincari delle tariffe per la gestione dei rifiuti (81,8%). Servizi semi pubblici dove evidentemente la concorrenza non ha fatto sentire i suoi effetti. O meglio, non c’è mai stata. Un po’ meglio i pedaggi autostradali, anche se un aumento medio del 50,1% è comunque più del doppio rispetto all’inflazione. I trasporti urbani negli ultimi dieci anni sono aumentati del 49,6%. Anche se bisogna tenere conto che in Italia costavano molto meno rispetto al resto dei Paesi sviluppati. Solo i servizi telefonici – settore che ha registrato da subito una grande presenza di operatori stranieri – hanno subìto un calo: -15,9%. L’unico registrato dagli artigiani di Mestre. Male anche settori totalmente privati, come le assicurazioni sui mezzi di trasporto che sono salite del 197,1% (4 volte in più dell’inflazione) da quando sono state liberalizzate nel 1994. In linea con l’inflazione gli aumenti dei servizi postali (più 37,8%). I trasporti ferroviari dal 2000, cioè da quando è stata separata la rete ferroviaria da Trenitalia, hanno registrato aumenti del 57,4%, 1,7 volte l’inflazione, al pari delle autostrade. Nel settore dell’energia, che è liberalizzato solo dal 2007, gli aumenti sono stati del 19,9% in sette anni, 1,5 volte l’aumento dei prezzi al consumo nello stesso periodo. «Noi – ha osservato il presidente dell’associazione degli artigiani di Mestre Bortolussi – non siamo a favore di un’economia controllata dal pubblico. Segnaliamo che le liberalizzazioni hanno portato pochi vantaggi ai consumatori. Anche perché in molti settori si è passati da un monopolio pubblico ad un regime oligarchico che ha tradito i principi legati ai processi di liberalizzazione». Il calcolo per Bortolussi deve servire a futura memoria. «Invitiamo il governo Renzi a monitorare con molta attenzione quei settori che prossimamente saranno interessati da processi di deregolamentazione. Non vorremmo che tra qualche anno molti prezzi e tariffe, che prima dei processi di liberalizzazione/privatizzazione erano controllati o comunque tenuti artificiosamente sotto controllo – conclude – registrassero aumenti esponenziali con forti ricadute negative per le famiglie e le imprese».

IPad e PC, tutte le tasse di Franceschini

IPad e PC, tutte le tasse di Franceschini

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

Pronto dal 20 giugno e firmato dal ministro del Beni culturali Dario Franceschini, il decreto sull’equo compenso (che garantisce il diritto d’autore anche sui contenuti digitali copiati o registrati su apparecchi elettronici) per salvaguardare il diritto d’autore – che prevede nuove tasse su pc, smartphone, tablet, televisori e pendrive Usb – non ha ancora fatto la sua apparizione in Gazzetta Ufficiale e neanche nel sito web del ministero. Ilfattoquotidiano.it però, grazie all’avvocato Guido Scroza (blogger del nostro sito) ha potuto leggerlo in anteprima e trarne qualche conseguenza. Innanzitutto la beffa di Franceschini: «Con questo intervento – si legge sul comunicato stampa che annunciava il decreto – si garantisce il diritto degli autori e degli artisti alla giusta remunerazione delle loro attività creative, senza gravare sui consumatori». Come è possibile che gli aumenti tariffari da oltre 150 milioni di euro all’anno (che finiranno nelle casse della Siae) non graveranno anche sulle tasche dei consumatori italiani? Com’è più probabile e come sempre accade, i produttori di informatica e tecnologia scaricheranno l’aggravio fiscale sul prezzo finale del prodotto, cioè sui cittadini tutti. In sostanza, siamo di fronte a un aumento di tasse mascherato.

Intono ecco le principali novità che il ministero della Cultura, d’accordo con il presidente della Siae Gino Paoli, ha stabilito in nome della tutela del diritto d’autore per copia privata: 5,20 euro di “tassa” per un computer, stessa cifra per uno smartphone o un tablet con capacità di memoria superiore a 32 giga, quattro euro per televisori dotati di capacità di registrazione, cui dovranno sommarsi altri euro per l’hard disk (fino a 20 euro) e pendrive Usb (9 euro). Ma c’è l’inghippo. La legge prevede che il ministero dei Beni culturali aggiorni le tabelle dei compensi dopo aver consultato il Comitato permanente sul diritto d’autore e le associazioni di categoria dei produttori di tecnologia. La Siae quindi è esclusa dai lavori. Solo in teoria, però. Perché nella pratica è intervenuta parecchio. Anzi ha proprio dettato il testo, poi recepito fino alla virgola dal ministro Franceschini. Basta confrontare il decreto, ancora nascosto nel Palazzo, col testo diffuso da Siae

Tra gli addetti ai lavori nei mesi scorsi per non trovare differenze. Da una parte il bastone, dall’atra la carota. Anche se ne avremmo fatto francamente a meno: la Siae nel frattempo ha ridotto l’equo compenso sui dispositivi che ormai conserviamo in soffitta, come i registratori Vhs o i vecchi cellulari. Non è un caso, forse, che il predecessore di Franceschini, Massimo Bray, durante il governo Letta avesse commissionato una ricerca di mercato per verificare se gli italiani si dilettassero a confezionare copie private. Risultato: sono sempre di meno i cittadini che copiano. Anche perché ormai si guarda e si ascolta in streaming. Quel decreto, dunque, ha sempre meno ragione di esistere.

Il coraggio di un fisco dal volto umano

Il coraggio di un fisco dal volto umano

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Al governo rimangono meno di 270 giorni per varare i decreti di attuazione della delega fiscale. Un periodo non breve ma neppure lunghissimo, vista la quantità di provvedimenti che dovranno essere predisposti. La macchina dell’attuazione, come sappiamo, si è comunque messa in moto e i primi decreti, Catasto e semplificazioni, sono stati approvati in via preliminare. Sulle semplificazioni, in particolare, è arrivato un testo con oltre una ventina di misure anti-burocrazia, che contiene molti elementi positivi ma che certamente non può che rappresentare un primo passo nella direzione indicata dalla delega. Anzi, a dirla tutta, quello schema di decreto colpisce più per le assenze (nessun intervento sulla responsabilità negli appalti né sulle società in perdita) che per le misure previste, non foss’altro perché molti interventi in arrivo facevano già parte di un pacchetto di semplificazioni che giaceva in Parlamento dal luglio dell’anno scorso.

Se questo è lo scenario, è evidente come sia urgente per il governo – che ha posto l’attuazione della delega fiscale tra i suoi obiettivi prioritari – imprimere un’accelerazione all’approvazione dei decreti previsti dalla delega stessa, cercando di compiere qualche importante passo avanti prima della fine del mese, quando potrebbero essere esaminati sia un nuovo decreto di semplificazione, legato al riordino dei regimi fiscali sia l’attesissimo testo sull’abuso del diritto. Sono due temi molto distanti tra loro: il primo rivolto al mondo dei piccoli contribuenti e l’altro a quelli medio-grandi e più strutturati. Ma sono due temi che, in linea di principio, rispondono a una stessa logica.

La delega punta alle semplificazioni attraverso il riordino dei regimi fiscali e la revisione degli adempimenti (anche quelli di sostituti d’imposta e intermediari). Ma è evidente come la “certezza del diritto” rappresenti, in fondo, il prerequisito di ogni processo di semplificazione. Un sistema fiscale semplice è, innanzi tutto, un sistema caratterizzato da norme chiare, certe e (possibilmente) stabili nel tempo. È un sistema che riduce al minimo i margini di interpretazione delle norme. È un sistema che sa combattere con tutti i mezzi i fenomeni di evasione e di elusione ma che, al tempo stesso, sa riconoscere in modo non estemporaneo le differenze tra i comportamenti illeciti e il legittimo risparmio di imposta. Il che è come dire che una vera semplificazione non può che partire dalle norme sostanziali, dalle regole che governano le singole imposte e la determinazione degli imponibili. E nella delega, in vero, non sembrano esserci ampi margini in questa direzione, pur con qualche eccezione.

La storia recente (e anche quella meno recente) del nostro sistema fiscale è una storia di continue fughe in avanti e retromarcia tra semplificazioni e nuove complicazioni (un esempio su tutti: arriva l’elenco clienti-fornitori; viene soppresso l’elenco-clienti fornitori; ritorna sotto nuova veste l’elenco clienti-fornitori). I numerosi tentativi del passato ricordano quanto il processo di semplificazione sia in realtà un processo molto complesso da realizzare, forse perché – come accennato – solo in rari casi si è partiti dalla “base”, ovvero dalle regole che governano i tributi. Processi che hanno dovuto necessariamente fare i conti con la politica, con i governi, con i parlamenti. Ma che forse soffrono di un altro peccato originale: spesso il compito di semplificare è stato affidato alle stesse persone – le burocrazie dell’amministrazione – che hanno prodotto le complicazioni.

La delega, sia chiaro, non è solo semplificazioni. Le sanzioni, il contenzioso, l’abuso del diritto di cui si è detto, il Catasto, l’evasione, le agevolazioni e molto ancora, sono punti altrettanto rilevanti. Ma sulle semplificazioni ci si gioca molto. E tutti si aspettano molto, perché un lavoro ben fatto ed efficace, in una delega che non porterà sconti di imposta, potrà almeno contribuire a ridurre i costi (pesanti) legati agli adempimenti. Senza scordare una vecchia regola: quella di verificare con attenzione l’impatto reale delle novità. Troppo spesso, in passato, persino i migliori propositi di semplificazione hanno finito per tradursi in nuove complicazioni.

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

Alberto Brambilla – Il Foglio

Con la pubblicazione delle Segnalazioni ai fini della legge annuale sulla concorrenza, attese da quattro mesi, ieri l’Antitrust ha fornito un assist al governo. Il premier Matteo Renzi si era impegnato col Documento di economia e finanza a recepire le raccomandazioni per cominciare a liberalizzare i settori dell’economia più ingessati. Le segnalazioni ne toccano molti. Sulla Sanità, ad esempio, si chiede in sostanza di estendere a tutta Italia il modello lombardo nel quale pubblico e privato sono in concorrenza. Sulle Poste viene invocata la separazione societaria dei servizi bancari da quelli postali, che significa fare saltare l’attuale processo di privatizzazione, messo in discussione dal cda, e ripensare le modalità di vendita sul mercato. Sulle municipalizzate: togliere l’affidamento in house dei servizi locali e privilegiare la gara pubblica. Sul trasporto pubblico locale: limitare le attività dei monopolisti e consentire ai privati di offrire servizi aggiuntivi al servizio pubblico e in concorrenza tra loro. Sul trasporto cittadino, l’invito è di ridurre le «distorsioni concorrenziali» aprendo ad altri modelli di business diversi dai taxi (un approccio “uberista”).

«È un vasto programma che lascia il compito alla politica di determinare la priorità», dice al Foglio Salvatore Rebecchini, componente del collegio dell’Autorità. Il presidente dell’Autorità garante e del mercato (Agcm) Giovanni Pitruzzella il 30 giugno ha bersagliato l’intreccio tra potentati economici e politici, quel capitalismo di relazione che difende le «rendite di posizione» a detrimento di «concorrenza e innovazione». Ambizione che richiama all’orecchio lo Sherman Antitrust Act del 1890, prima legge antitrust americana tesa a colpire monopoli e cartelli che trovò applicazione solo a decenni dall’introduzione a causa di scontate resistenze. È lecito attendersi resistenze enormi nel caso delle raccomandazioni sule banche. Da un lato s’invoca l’abolizione del voto capitario nelle banche popolari, con cui i soci dipendenti possono condizionare le decisioni; tema oggetto di scontro tra Banca d’Italia (che ha cercato, senza successo, di fare una modifica) e la Banca popolare di Milano (che resiste). Dall’altro recidere il legame tra banche commerciali e fondazioni, per decenni simbolo del rapporto incestuoso tra finanza e politica. Per la prima volta l’Agcm ufficialmente consiglia al governo di archiviare l’era delle fondazioni padrone e limitare l’influenza sugli istituti di credito di cui sono azioniste: «Rafforzare la separazione fra fondazione e banca conferitaria», «vietare il passaggio dai vertici della fondazione agli organi delle banca e viceversa» ed «estendere il divieto per le fondazioni di detenere il controllo di una banca anche nei casi in cui il controllo è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti», si legge.

Ultimamente le fondazioni, vigilate dal Tesoro, sono state pungolate anche dalla Banca d’Italia e dal Fondo monetario internazionale in quanto le banche da esse influenzate rappresentano l’anello debole del settore. Per capire quanto la presenza degli enti incida sulle scelte strategiche basti dire che le fondazioni detengono congiuntamente il 9 e il 25 per cento del valore azionario di Unicredit e Intesa San Paolo, e arrivano a esprimere oltre l’80 per cento del consiglio in entrambi gli istituti esercitando pieno controllo, secondo Lavoce.info. Il legislatore ha più volte cercato di ridurne il potere (legge Amato-Carli del 1990 e legge Ciampi del 1996) con alterne fortune. Tuttavia il loro ministero regge, pur indebolito dalla crisi.

Renzi di rado ha sfiorato l’argomento: si è tenuto lontano dalle vicende del Monte dei Paschi pure quando la terza banca del paese è stata vittima di un abnorme assedio mediatico-giudiziario. A fare una richiesta così dirompente come quella dell’Agcm per ora ci hanno pensato i Radicali che, pur non essendo presenti in Parlamento, con la campagna “#sbanchiamoli” stanno cercando di reclutare deputati e senatori disponibili a firmare una petizione, contenente una proposta di legge, per separare le banche dalle fondazioni. Tuttavia gli onorevoli sono tuttora riluttanti a prendere posizione dato il conflitto di interesse dei partiti a livello locale.

Asta fallimentare

Asta fallimentare

Davide Giacalone – Libero

Vendere l’Italia come se fosse un’asta fallimentare è l’esatto opposto di usare il valore del patrimonio per abbattere il debito. Incassare un’offerta di 530 mila euro per un’isola veneziana (Poveglia) non significa che quello è il valore offerto dal mercato, ma che è fuori dal mercato e dal mondo la procedura utilizzata. Queste operazioni si fanno in maniera radicalmente diversa: 1. si aggregano pacchetti che consentono valorizzazioni importanti; 2. si chiamano investitori da ogni parte del mondo, con annunci sulla stampa internazionale. Qui, invece, si vendono conventi e castelli come se fossero la stamberga lasciata libera dalla nonna defunta.

“Venghino signori venghino”. Si scomodò il presidente del Consiglio, per mettere all’asta quattro scarcassoni, supponendo che ci fossero in giro feticisti disposti a spendere per potere possedere l’auto nella quale pose le terga il ministrucolo di turno. Per vendere isole e palazzi storici, invece, il demanio procede a umma-umma, sbriciolando il patrimonio e chiamando a concorrere quello stesso mondo fallimentare che al ministrucolo fece da corte. Così le cose si svendono, deprezzano, maltrattano. Impoverendoci tutti. Così stando le cose le aste meglio riuscite sono quelle andate deserte.

Ci sono due strade, che possono essere degnamente imboccate. La prima consiste nel convincere gli altri europei a creare un fondo comune delle dismissioni immobiliari, costruendolo in modo tale che i conferimenti generino immediatamente una parte della liquidità relativa al valore stimato (mettiamo l’80%). Il fondo può agevolmente finanziarsi con bond europei, che non susciterebbero la ribellione di taluni (leggi Germania e Olanda), perché non comporterebbero una federalizzazione dei debiti nazionali, essendo garantiti dal patrimonio conferito. Il fondo avrebbe il compito di vendere, per far questo utilizzando soggetti professionali di primo livello, selezionati nel mondo, e attirando investimenti altrettanto globali. Una volta effettuate le vendite queste genererebbero la retribuzione degli intermediari e si potrebbe poi conguagliare con il Paese conferitore (se vendi a 100 e hai anticipato 80 giri la differenza, al netto delle commissioni). La seconda consiste nel fare la stessa cosa, ma a livello nazionale. In questo caso non ci potrebbero essere bond, dato che il patrimonio è lo stesso oggi messo a garanzia del debito, ma si potrebbe portare in Borsa il veicolo societario approntato. Stiamo parlando di valori che superano, solo per l’Italia, i 500 miliardi. Anche in questo caso si devono chiamare operatori professionali di livello globale, senza riserve di caccia per gli amichetti rapaci e incapaci. La prima è migliore della seconda, ma la seconda è mille volte preferibile al sistema che si sta utilizzando.

Il patrimonio immobiliare, inoltre, potrà essere adeguatamente valorizzato se nelle condizioni di vendita sono già illustrate le condizioni d’uso (quel che si può fare e quello che no) e quelle fiscali. Nessuno investe in un Paese in cui non esiste il diritto e il rispetto del contribuente, talché a ogni conto sbagliato corrisponde una nuova tassa adottata.

Sarà bene ricordare che, per uno Stato come per una famiglia, il patrimonio si vende una volta sola, mentre i debiti non estinti si pagano per sempre. Siccome il patrimonio si accumula negli anni (nei secoli), mentre la liquidità che se ne ricava si è in grado di mangiarsela nei mesi, la sola cosa moralmente accettabile è che il patrimonio di tutti serva ad alleggerire tutti dal debito collettivo e dal suo insopportabile costo. Visto che si inalberano in tanti se i tedeschi ci mandano a dire una cosa ovvia, ovvero che il debito crescente non propizia lo sviluppo, ma la miseria, lasciate che sia un cittadino italiano, contribuente, a dire che se il patrimonio viene in quel modo gestito allora è preferibile evitare ogni operazione, lasciandolo a marcire dove si trova. Non è un affare, ma, almeno, non è neanche un malaffare.

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Alessandro Barbera – La Stampa

L’ultima relazione della sezione regionale della Corte dei Conti dice che il bilancio della Sicilia è regolare. Fanno eccezione – definiamoli così – alcuni non trascurabili dettagli. Anzi, trentatré: le società partecipate dalla Regione. C’è chi estrae il sale (Italikali), chi fa consulenza imprenditoriale (Sicilia Sviluppo), chi commercia all’ingrosso (Mercati Agri Alimentari) o produce software (Sicilia e-servizi). A quelle latitudini la crisi dei debiti sovrani non è mai arrivata, diversamente non si spiegherebbero le due acquisizioni dell’anno scorso: le quote dell’aeroporto di Trapani e il 20 per cento di Interpoli siciliani. Per la Corte è impossibile «una valutazione precisa dei valori patrimoniali», «l’assenza di introiti», l’«impatto considerevole derivante dagli oneri sostenuti» per gli oltre settemila dipendenti: più di un miliardo di euro fra il 2009 e il 2012, 300 milioni solo l’anno scorso. Per cogliere fino in fondo le ragioni che spingono i tedeschi a non dare troppo spazio alle richieste di flessibilità dell’Italia è in numeri come questi.

In passato alcuni politici hanno tentato di convincerci che per risolvere il problema basterebbe separare l’Italia in due e liberarsi del Sud. Poi uno scorre un’altra relazione – questa volta della sezione «autonomie» della Corte dei Conti – e capisce perché alla fine gli italiani non gli hanno creduto. Delle circa 7.500 società censite, il 34 per cento stanno nel Nord Ovest, una su quattro nel Nord Est. La sola Provincia di Trento conta quaranta partecipazioni. Gestisce quattro alberghi – fra cui il mitico Hotel Lido Palace – campi da golf, funivie, masi di montagna e distretti tecnologici. Qualcuno obietterà che occorre distinguere fra chi fa utili e chi non li fa. Sappiamo che molte, troppe, fanno più perdite che utili e che l’unica soluzione per risolvere i loro problemi è un piano industriale per accorpare le più importanti. La chiusura delle Province inizia a dare i suoi effetti, se ieri il presidente di Vercelli, in una lettera piccata a Renzi, ha annunciato «la vendita degli ultimi gioielli di famiglia». A titolo di esempio, è sempre più difficile sostenere che abbia senso per il Comune di Treviglio occuparsi di trattamento degli scarti di legname con la “Ecolegno bergamasca”. L’universo delle partecipate italiane conta 87 società per la pesca e la silvicoltura, 166 si occupano di sport e divertimento, 187 fanno commercio all’ingrosso o riparazione di auto e moto. Altre 149 società si occupano di noleggio, viaggi e di «servizi di supporto alle imprese», 106 di costruzioni, 383 gestiscono hotel e ristoranti. Settori nei quali la crisi non è mai davvero arrivata Eppure nel 2012 la società che gestisce gli impianti sportivi di Cortina è riuscita a perdere più di un milione e mezzo di euro.

Fra le grandi città quella specializzata nel mandare in rosso le società controllate è senza dubbio Genova. Non c’è solo il noto caso dell’azienda dei trasporti, meno di dieci milioni nel 2012 e una privatizzazione bloccata dallo sciopero selvaggio degli autisti genovesi. Nella lista della Corte dei Conti svettano “Sportingenova” – i cui due milioni di rosso sono nulla rispetto ai nove persi da “Milanosport spa” – e i 109mila euro persi da “Bagni marina genovese spa”, la società proprietaria di alcune delle spiagge più belle del litorale. Se c’è un settore in cui far tornare i conti non è difficile è quello delle concessioni. Se poi la concessione è una spiaggia e c’è da gestire ombrelloni e bagnini, per andare in perdita occorre impegno.