auto blu

Asta fallimentare

Asta fallimentare

Davide Giacalone – Libero

Vendere l’Italia come se fosse un’asta fallimentare è l’esatto opposto di usare il valore del patrimonio per abbattere il debito. Incassare un’offerta di 530 mila euro per un’isola veneziana (Poveglia) non significa che quello è il valore offerto dal mercato, ma che è fuori dal mercato e dal mondo la procedura utilizzata. Queste operazioni si fanno in maniera radicalmente diversa: 1. si aggregano pacchetti che consentono valorizzazioni importanti; 2. si chiamano investitori da ogni parte del mondo, con annunci sulla stampa internazionale. Qui, invece, si vendono conventi e castelli come se fossero la stamberga lasciata libera dalla nonna defunta.

“Venghino signori venghino”. Si scomodò il presidente del Consiglio, per mettere all’asta quattro scarcassoni, supponendo che ci fossero in giro feticisti disposti a spendere per potere possedere l’auto nella quale pose le terga il ministrucolo di turno. Per vendere isole e palazzi storici, invece, il demanio procede a umma-umma, sbriciolando il patrimonio e chiamando a concorrere quello stesso mondo fallimentare che al ministrucolo fece da corte. Così le cose si svendono, deprezzano, maltrattano. Impoverendoci tutti. Così stando le cose le aste meglio riuscite sono quelle andate deserte.

Ci sono due strade, che possono essere degnamente imboccate. La prima consiste nel convincere gli altri europei a creare un fondo comune delle dismissioni immobiliari, costruendolo in modo tale che i conferimenti generino immediatamente una parte della liquidità relativa al valore stimato (mettiamo l’80%). Il fondo può agevolmente finanziarsi con bond europei, che non susciterebbero la ribellione di taluni (leggi Germania e Olanda), perché non comporterebbero una federalizzazione dei debiti nazionali, essendo garantiti dal patrimonio conferito. Il fondo avrebbe il compito di vendere, per far questo utilizzando soggetti professionali di primo livello, selezionati nel mondo, e attirando investimenti altrettanto globali. Una volta effettuate le vendite queste genererebbero la retribuzione degli intermediari e si potrebbe poi conguagliare con il Paese conferitore (se vendi a 100 e hai anticipato 80 giri la differenza, al netto delle commissioni). La seconda consiste nel fare la stessa cosa, ma a livello nazionale. In questo caso non ci potrebbero essere bond, dato che il patrimonio è lo stesso oggi messo a garanzia del debito, ma si potrebbe portare in Borsa il veicolo societario approntato. Stiamo parlando di valori che superano, solo per l’Italia, i 500 miliardi. Anche in questo caso si devono chiamare operatori professionali di livello globale, senza riserve di caccia per gli amichetti rapaci e incapaci. La prima è migliore della seconda, ma la seconda è mille volte preferibile al sistema che si sta utilizzando.

Il patrimonio immobiliare, inoltre, potrà essere adeguatamente valorizzato se nelle condizioni di vendita sono già illustrate le condizioni d’uso (quel che si può fare e quello che no) e quelle fiscali. Nessuno investe in un Paese in cui non esiste il diritto e il rispetto del contribuente, talché a ogni conto sbagliato corrisponde una nuova tassa adottata.

Sarà bene ricordare che, per uno Stato come per una famiglia, il patrimonio si vende una volta sola, mentre i debiti non estinti si pagano per sempre. Siccome il patrimonio si accumula negli anni (nei secoli), mentre la liquidità che se ne ricava si è in grado di mangiarsela nei mesi, la sola cosa moralmente accettabile è che il patrimonio di tutti serva ad alleggerire tutti dal debito collettivo e dal suo insopportabile costo. Visto che si inalberano in tanti se i tedeschi ci mandano a dire una cosa ovvia, ovvero che il debito crescente non propizia lo sviluppo, ma la miseria, lasciate che sia un cittadino italiano, contribuente, a dire che se il patrimonio viene in quel modo gestito allora è preferibile evitare ogni operazione, lasciandolo a marcire dove si trova. Non è un affare, ma, almeno, non è neanche un malaffare.

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Carlo di Foggia – Il Fatto Quotidiano

Nell’era Renzi, con l’annuncio il più è fatto. La distanza tra la slide e il fare è invece una questione di priorità. Quella delle auto blu in dotazione ai Ministeri non sembra esserlo molto. Come tempi d’attesa non c’è male: 76 giorni e ancora nulla. Eppure l’annuncio aveva rispettato tutti i passaggi codificati dal nuovo corso renziano: la slide («Massimo 5 vetture a Ministero»), l’annuncio in conferenza stampa in orario Tg e il tweet a effetto finale. «Direttori e sottosegretari dovranno andare a piedi o in taxi, autobus, metro, moto o bicicletta» spiegava il premier. Era il 18 aprile. Pe questo si può solo immaginare il senso di frustrazione provato al commissario alla spending review Carlo Cottarelli, costretto a chiamare il dipartimento della Funzione pubblica per chiedere conto del ritardo e sentirsi rispondere che «ci sono stati dei contrattempi». C’era la riforma della Pa da portare a casa, decine di articoli finiti in un decreto omnibus e cassati dai tecnici del Quirinale che hanno costretto gli uffici legislativi alle dipendenze del ministro Marianna Madia a riscrivere i testi e spacchettare il tutto in due provvedimenti. E quindi? E quindi «il fascicolo è finito sotto gli altri».

L’episodio si è svolto mercoledì scorso, a raccontarlo è un’autorevole fonte del Tesoro – dove Cottarelli ha ancora il suo ufficio – per altro l’unico Ministero che ha ridotto le auto blu: da 24 a 12 a disposizione dei vertici, costretti a usarle solo su prenotazione. Un’operazione – spiegano nei corridoi di via XX Settembre – «avvenuta motu proprio», cioè in automatico, senza una norma che li obbligasse a farlo. Perché, per quante riforme tu possa annunciare e impegni tu possa prendere, la trafila è sempre la stessa: servono i decreti attuativi, altrimenti le norme contenute nei testi usciti dal Consiglio dei ministri rimangono semplici dichiarazioni d’intenti. Quella sulle auto blu dei Ministeri è stata inserita nel decreto Irpef – quello sui famosi 80 euro in busta paga – del 24 aprile scorso. Quel testo stabilisce che «con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è indicato il numero massimo, non superiore a cinque, per le auto di servizio a uso esclusivo, nonché per quelle ad uso non esclusivo, di cui può disporre ciascuna amministrazione centrale dello Stato». Ai vari Ministeri, però, quel decreto non è mai arrivato, e così le 1.599 auto blu (costo: 400 milioni l’anno) che compongono il parco macchine in uso a ministri, viceministri, sottosegretari, capi di gabinetto e di dipartimento, sono ancora tutte lì.

Come spesso succede con gli annunci renziani, i risultati ottenuti sono spesso opera dei predecessori. Nel caso specifico, a oggi l’unico taglio effettuato – per altro molto blando – è quello voluto a settembre 2011 dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: via le auto di utilizzo esclusivo con autista – cosiddette “blu blu” – a direttori generali, capi degli uffici legislativi, delle segreterie e degli uffici stampa. Ai piani più alti hanno invece conservato quelle di utilizzo non esclusivo ma sempre con autista. Le altre 5.000 auto blu sparse per le amministrazioni periferiche sono ancora tutte in servizio e non vengono toccate dalla norma annunciata da Renzi. Norma che non riguarderà le 53.743 vetture che compongono l’intero parco macchine in dotazione alla pubblica amministrazione (49.820 appartengono alle amministrazioni locali) e che costano poco più di un miliardo l’anno alle casse dello Stato. Qualcosa però potrebbe muoversi nei prossimi giorni. «Adesso che il decreto della Pa è stato licenziato – spiegano al Mef – i funzionari metteranno mano al decreto attuativo. Che peraltro varrà per tutti i Ministeri, senza bisogno di ulteriori interventi». Bastava così poco.