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Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il Messaggero

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

I numeri
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Claudio Marincola – Il Messaggero

Che ci fa la presidenza del Consiglio nello stesso calderone di Afragol@net srl? E l’Agenzia del demanio con l’azienda del cavalier Marco Rossi Sidolì? L’Istituto Ville Tuscolane con il Cnel o con il Cnr? Fanno parte della stessa famiglia, una grande famiglia allargata: 363 amministrazioni arcinote o misconosciute tenute insieme da un filo. Tutte, grandi o piccole, sono inserite nel conto economico consolidato della Pubblica amministrazione. Avrebbero dunque l’obbligo di seguire le stesse regole di bilancio, programmare le entrate, pianificare le uscite, monitorare e rispettare i tetti di spesa per gare, retribuzioni, consulenze, etc, etc. Ogni anno l’Istat, che ne fa parte, aggiorna l’elenco pubblicandolo sulla Gazzetta ufficiale ai sensi della legge 3l dicembre 2009, n.196. Elenco che anziché diminuire misteriosamente si espande come il polistirolo (nel 2013 erano 293). Risultato: orientarsi in questo dedalo di enti – autorità amministrative indipendenti, strutture associative, federazioni sportive, istituti di ricerca, amministrazioni locali, camere di commercio, consorzi di bonifica, fondazioni, spa, enti di previdenza – è quasi impossibile. La trasparenza – a parte qualche eccezione – è un optional. Link che rimandano ad altri link fino a perdersi nel vortice nero del web. Sarà un caso ma la “controllabilità” della spesa – ferita che sanguina, all’origine dell’emorragia del nostro debito pubblico – e la verifica degli andamenti della finanza, passa proprio da questa giungla.

La giungla
C’è l’Accademia della Crusca; il Museo storico della Liberazione; la Federazione italiana bocce; la Fondazione Biennale di Venezia; il Festival dei Due Mondi; lo storico Cnr, fondato nel 1923 e ora sottoposto alla vigilanza del Miur; il Cnel, svuotato ormai di fondi e tra non molto anche di personale; l’Enit, che si occupa di turismo ma sta per essere rivoltato come un calzino; quel che resta dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero, persino Equitalia, e l’Agenzia per le Entrate ma anche Itcity.it, una partecipata del comune di Parma. E poi c’è il Fondo edifici di culto. Un fondo immobiliare nato nel 1866 per gestire il patrimonio della Chiesa, 750 edifici religiosi, abbazie, basiliche, incamerati dallo Stato e sparsi per la Penisola. Fino al 1932 il Fondo ricadeva sotto il ministero di Grazia e giustizia, dal 1932 è passato al ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. C’è di tutto e di più, insomma.

Esodati e felici
Poteva mancare in questo gigantesco rassemblement la Resais spa? Cos’è? Fu creata dalla Regione Sicilia per assorbire i dipendenti degli enti Azasi, Ems ed Espi (l’ex Fiera del Mediterraneo). Un’azienda partecipata al 100% e nata per ricollocare il personale in esubero: ha la mission di accompagnare fino alla pensione i dipendenti che non hanno ancora i requisiti. Qualche tempo fa erano 257, retribuiti con lo stipendio base e lasciati a casa. “Oneri sociali” a tutti gli effetti che avrebbero potuto essere spalmati in altri settori della PA, in uffici dove il personale è carente. Alcuni lo hanno chiesto e ottenuto. Altri no. Così che «Resais» a Palermo e dintorni fatalmente è diventato «un sogno», l’aspirazione segreta a una condizione umana e sociale di dipendente messo da parte ma stipendiato. Un esodato felice. Nata come si diceva per accompagnare i lavoratori alle panchine dei giardinetti pubblici, Resais può utilizzare gli ammortizzatori sociali a tempo indeterminato o quasi. Il primo a concepire questa lampada di Aladino fu nel 1986 l’allora presidente dell’Ars, Nicolais. Si era pensato di chiuderne l’attività nel 2020. Poi sono arrivati i 50 dipendenti dell’ex Fiera. Potevano restare fuori? No. E l’orologio è stato spostato al 2030. Pazienza se in questo modo c’è chi usufruirà di scivoli decennali.

La grande mamma
Mai avuto dubbi. La PA è una grande mamma – o forse una manna – che costa milioni e milioni. E nessuno che muova un dito, che si stupisca. Anzi. Il 4 giugno dello scorso anno una delegazione di lavoratori della Resais spa marciò verso l’Ars al grido di «giù le mani dallo stipendio»; fu ricevuta da Mariella Maggio, vice presidente della commissione Lavoro; chiese e ottenne l’applicazione della legge regionale 26/2012, la garanzia della salvaguardia occupazionale e il recupero delle spettanze arretrate.

Il sottotetto
Che non si dica che certe cose accadono solo in Sicilia. Ci mancherebbe. Della grande famiglia fa parte anche l’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura. La cassaforte del ministero delle Politiche agricole in cui transitano 5 miliardi di euro è al centro di varie inchieste e interrogazioni parlamentari (l’ultimo caso è l’indagine della Procura di Roma su una presunta maxitruffa sui contributi). Come tutti gli enti sottoposti ai controlli l’Agea è tenuta a rispettare i tetti delle retribuzioni. I due dipendenti di prima fascia guadagnano rispettivamente 214.199 mila euro e 166.546 mila euro l’anno, compresa l’indennità di risultato. Più di loro guadagna il direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura, il Cra, anch’esso nell’elenco Istat. Essendo il tetto fissato a 240 mila euro lordi – scrive nella sua interrogazione il deputato di Sel Zaccagnini- la dirigente si è ridotta lo stipendio di 42 euro e 97 centesimi l’anno, attestandosi nel più congruo “sottottetto” di 239.957,03 euro lordi. Quando si dice: spending review.

Il torto
Per non far torto a nessuno va citata a questo punto anche l’Inea, l’Istituto di economia agraria che finanzia le ricerche economiche. L’articolo 32 della Legge di stabilità ne prevede la fusione con il Cra. Ma l’accorpamento non fermerà 1’indagine avviata dalla Procura di Roma sulle consulenze esterne affidate tra il 2007 e il 2010. PA che vai “pasticcio” che trovi? Non sempre. Ci sono anche le eccellenze. La Fondazione Gioacchino Rossini Opera festival; l’Istituto culturale ladino; 1’Agenzia per l’Italia digitale (che si regge con un finanziamento di 1 milione 721.669 euro). In questo spaccato che racconta il nostro Paese da cima a fondo non poteva mancare l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Discorso a parte meriterebbero infine i consorzi di bonifica, istituiti dal duce. Li accusano di essere trasformati in poltronifici. Vorrebbero chiuderli. Ma la grande famiglia non abbandona nessuno.

Meno salvataggi, più investimenti

Meno salvataggi, più investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Michele Ferrero è stato un imprenditore senza eguali. E non solo perché ha costruito un gigante mondiale dell’industria dolciaria, grazie solo alle sue intuizioni e alle sue proverbiali doti di laboriosità e tenacia. Ma, anche, perché ha fatto tutto questo rifuggendo dai salotti e salottini del capitalismo relazionale e dalle suggestioni della finanza creativa, optando per una visione dell’impresa che cresce in complicità con i dipendenti e il territorio – offrendo loro, negli anni del conflitto di classe, un Welfare sui generis – e affonda le radici nel rapporto di fiducia tra i suoi prodotti e il consumatore.

Pensavo a questa unicità quando, nei banchi della cattedrale di Alba, partecipando al suo funerale, osservavo che tra le tante personalità venute a rendergli omaggio ci fossero meno imprenditori famosi di quanto sarebbe stato doveroso che fosse. E mi è venuto spontaneo rimuginare le pagine dell’ultimo libro di Giuseppe Berta (La via del Nord, Il Mulino), nel quale lo storico dell’economia dice di aver perso ogni residua speranza che gli imprenditori settentrionali riescano ad adattare il vecchio triangolo industriale all’economia del nuovo millennio. E mi è venuto di pensare che non saprei fare un nome di chi, oggi, potrebbe portare un’azienda dalla dimensione locale a quella mondiale, senza passare né per la Borsa né per acquisizioni, come ha fatto Ferrero. Non è un caso che le esportazioni agroalimentari italiane siano inferiori a quelle tedesche: in questa filiera, come in quasi tutto il manifatturiero, l’Italia, a differenza della Germania, non ha puntato sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sull’innovazione dei prodotti e dei processi, sul trasferimento di conoscenze ai lavoratori. E non è un caso che il nostro export copra meno di un terzo del pil, mentre quello tedesco oltre la metà.

Purtroppo la politica industriale italiana degli ultimi anni è consistita esclusivamente nel salvare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti, in una forma di patologico accanimento terapeutico. Nonostante che dal 2008 ad oggi siano fallite 82mila imprese (con la perdita di un milione di occupati) e si sia bruciato il 25% della capacità produttiva, nuove Ferrero all’orizzonte non sono spuntate. Anzi, ogni anno sono nate sempre meno imprese (nel 2013 -11,1% rispetto al 2007). Perciò vanno nella giusta direzione le misure dell’Investment Compact che allargano per le start-up le agevolazioni legate al concetto di innovazione, comprendendo anche quella non tecnologica; meno quelle che prevedono la creazione di una società per le ristrutturazioni industriali.

Non ci servono salvataggi ma investimenti massicci (anche pubblici) per colmare i buchi di un capitalismo sempre più a macchia di leopardo, con poche eccellenze di nicchie e troppi vuoti nei settori più strategici. Occorre progettare il riposizionamento del nostro sistema produttivo. Avendo coscienza che, visto il nostro declino, da soli non possiamo farcela. Per fare la rivoluzione industriale abbiamo bisogno della grande finanza mondiale – avendo cura di selezionarla, non tutti gli investitori sono uguali – e di alleanze industriali strategiche e solide in Europa. Possibilmente tenendo conto delle scelte geopolitiche che i grandi nodi dello scacchiere mondiali (Grecia, Libia, Russia-Ucraina) comunque ci imporranno di fare.

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

Claudio Marincola – Il Messaggero

Li creò il duce, e d’allora prosperano. Qualcuno vorrebbe sopprimerli con un colpo di spugna. Qualcun altro parla invece di riordino. E su questo nodo che non si scioglie e si aggroviglia sempre più si va avanti da anni. Centoventi consorzi di bonifica che hanno competenza interregionale. Cui si aggiungono altri 25 enti di bonifica montana “di miglioramento fondiario”. Sfumature diverse e latitudini diverse ma la stessa mission: il «miglioramento fondiario». Sono “le sentinelle dei fossi”; “i presidii del territorio”, più spesso, purtroppo, “gli angeli del fango”. Ma quanto ci costano? Il Belpaese frana, 8 Comuni su 10 sono a rischio. La mappa del dissesto idrogeologico è sconfinata: per la bonifica – isole comprese – servirebbero almeno 8 miliardi di euro. E loro si dicono disposti a gestire una bella fetta dell’emergenza maltempo. Sono tutti affiliati all’Anbi, l’associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari.

Hanno messo radici profonde, sono carrozzoni per un certo verso ormai “irrottamabili”. Si occupano di salvaguardia ambientale, regolazione idraulica, difesa del territorio, flussi. Disciplinati dal regio decreto 215 del 1933, noto anche come legge Serpieri, dal nome del padre fondatore della bonifica integrale. Mettono insieme un esercito di circa 7500 dipendenti. In Toscana, dove ogni anno entrano in cassaforte circa 130 milioni di euro, su 500 dipendenti gli operai sono solo 160. Il presidente di un consorzio toscano si mette in tasca 33.500 euro l’anno. Un consigliere in media 30 euro a gettone di presenza. Sono retti da amministratori nominati in parte da enti locali, in parte da consorziati. Così che negli anni sono saliti a bordo burocrati di vario genere, ex politici, trombati, riciclati, a volte a parziale risarcimento delle spese elettorali. La percentuale dei votanti normalmente è irrisoria, di rado supera il 2% degli aventi diritto.

La sforbiciata
Il progetto per eliminarli ci sarebbe. Si chiama «sforbicia Italia», annunciato da Matteo Renzi all’indomani dell’arrivo al governo. I consorzi di bonifica hanno incassato dati alla mano (2012), solo di “contribuenza” 579 milioni di euro, di cui 212 a carico dei proprietari urbani. Ai quali bisogna aggiungere i contributi di Regioni, Province e Comuni. Con gli anni e data la fragilità congenita del nostro assetto idrogeologico le funzioni si sono ampliate: sempre più spesso sostituiscono gli enti locali andando oltre così il perimetro del regio decreto che li ha istituiti. L’obiettivo dei consorzi è ampliare il raggio d’azione: estendere la base imponibile e dunque il numero e il valore delle contribuzioni. Che vuol dire ampliamenti, interventi su immobili e territori lontani chilometri e chilometri dalle opere ritenute necessarie di bonifica. C’è chi si è visto addebitare contributi per opere realizzate decine di anni prima. Di tanto in tanto spunta fuori qualche scandaluccio. Chi li paga? Versano il contributo annuale di bonifica tutti i proprietari di beni immobili, terreni e fabbricati ricadenti all’interno del perimetro di bonifica che ricevono benefici dall’ente.

Rosso fisso
In Sicilia operano 11 consorzi di bonifica che costano circa 120 milioni l’anno. Sono chiamati a gestire tra l’altro la distribuzione dell’acqua che notoriamente scarseggia per via della rete- colabrodo. Il consorzio di Siracusa è in rosso per 20 milioni, Palermo di oltre 15. Chi li ripianerà? Il rapporto tra estensione del territorio e dipendenti è una delle tante incongruenze siciliane. Con il caso limite di Messina: un dipendente ogni 2,2 ettari. La risposta a chi accusa i consorzi di essere sovradimensionati è che le condutture sono fatiscenti e le infrastrutture carenti. Questo non ha impedito a Catania che la procura aprisse un’inchiesta sulle consulenze e le assunzioni facili. Per non parlare delle controversie sulla stabilizzazione dei lavoratori. Il fenomeno non riguarda solo la Sicilia, naturalmente.

La proposta
I consorzi hanno svolto in passato un ruolo di particolare rilievo per l’agricoltura italiana. Questo è fuori discussione. Ma il ruolo andrebbe ripensato. Gli interventi per modificarli sono stati innumerevoli. Non si contano i commissariamenti, le chiusure per liquidazione, le inchieste. Con le proposte di legge per cambiarli o abolirli ci si potrebbero scrivere enciclopedie. Il deputato aretino Marco Donati (Pd) ha presentato nello scorso novembre una proposta di legge firmata da un gruppo di deputati renziani. Con la benedizione del premier potrebbe andare a dama. Si chiede che le competenze e le funzioni vengano trasferite «a enti già costituiti all’entrata in vigore delle nuova legge». Donati spiega: «In Toscana la necessità di semplificare il rapporto tra cittadini e istituzioni è molto sentito. La mia proposta va in questa direzione. Sono istituti che possono essere integrati nelle Regioni e nei Comuni. Più che una politica è una filosofia, un’operazione simile alla riduzione delle municipalizzate». Non più consorzi lottizzati, trasparenza, dipendenti assorbiti dagli enti locali. Più semplice pianificare gli interventi. Proprio in Toscana, nell’ultima alluvione, si è scatenata l’ennesima polemica tra i consorzi e il governatore Enrico Rossi per interventi mai iniziati o non a regola d’arte. Accuse, scaricabarile, etc, etc. L’Italia dei siparietti che non cambia mai.

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.

E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.

Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.

Province, il piano per il 20mila esuberi

Province, il piano per il 20mila esuberi

Andrea Bassi – Il Messaggero

Per il governo è qualcosa in più di un passaggio delicato. È una prova. Uno spartiacque. Riuscire a gestire il più grande processo di mobilità di dipendenti pubblici mai tentato in Italia. Sono i 20 mila lavoratori delle Province che da qui al 2016 dovranno trovare una nuova collocazione. Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ieri ha messo a punto il primo importante passaggio di questo percorso, una circolare che detta le linee guida per determinare il destino di questi 20 mila statali. In realtà, alla fine, il processo di mobilità potrebbe riguardare una platea meno ampia di personale, circa 15mila in tutto. Dai 20mila di partenza, infatti, vanno sottratti i dipendenti delle Province che lavorano nei centri per l’impiego. Personale che sara ricollocato nella nuova Agenzia prevista dal Jobs act. Vanno anche sottratti tutti coloro che entro il 2016 avranno, con le regole vigenti, i requisiti per andare in pensione. Non sono pochi.

Per le province il blocco del turn over è stato molto incisivo. L’età media del personale è alta e dunque i numeri sarebbero consistenti. Ed ancora, i 20mila, vanno decurtati da coloro che potranno essere pensionati in base alle regole pre-Fornero. Per la Pubblica amministrazione, in effetti, fino al 2016 è in vigore una norma inserita nel cosiddetto «Decreto D’Alia» che permette in caso di dichiarazione di esuberi, di poter mandare in pensione il personale con i requisiti più favorevoli previsti dalle vecchie norme, che fino al 2015 prevedevano il pensionamento con 61 anni di età e tre mesi, e 36 anni di contributi. Insomma, al netto di pensionati, prepensionati e dipendenti dei centri per l’impiego, il numero totale dei dipendenti delle Province da ricollocare sarebbe ben inferiore ai 20mila e più vicino ai 15mila. Cosa sarà di questi dipendenti? L’intenzione del governo, indicata nella circolare Madia, è di concentrare sul loro riassorbimento tutte le forze e le risorse disponibili. Con qualche effetto collaterale, come la necessità di spostare di un biennio, dal 2016 al 2018, il termine per la stabilizzazione dei lavoratori precari del pubblico impiego.

Per assorbire il personale delle Province entreranno in campo, in prima battuta, le Regioni. Quelle che negli anni scorsi hanno trasferito delle loro funzioni agli enti provinciali, dovranno riprendersele indietro con tutto il personale adibito a quelle stesse funzioni. Nel caso in cui questo trasferimento di deleghe non ci sia stato, allora le Regioni dovranno destinare tutte le risorse per le assunzioni del biennio 2015-2016, al netto solo di quelle necessarie per i vincitori di concorso, per assorbire i dipendenti provinciali. In pratica tutto il turn over sarà vincolato all’assunzione dei lavoratori delle Province. Una misura simile la dovranno attuare anche le altre amministrazioni dello Stato, Comuni compresi. La Presidenza del Consiglio avvierà un monitoraggio sui fabbisogni di personale e sulle risorse disponibili di tutta l’articolazione della macchina statale. Anche in questo caso, sempre al netto dell’assunzione dei vincitori di concorso, le risorse dovranno tutte essere destinate ad assorbire i dipendenti provinciali. Stesso discorso vale anche per gli uffici giudiziari. Il bando per la mobilità per coprire 1.031 posti da cancelliere, dovrà essere prioritariamente destinato a quei lavoratori in mobilità delle Province che ne facciano richiesta.

Basterà questo a dare un posto tutti i dipendenti in mobilità? Al ministero della Funzione pubblica ne sono convinti. Eppure nella circolare è stata inserita una sorta di «clausola di salvaguardia». Se alla fine di questo processo dovessero rimanere dei lavoratori in esubero, c’è scritto, ci saranno solo due strade per gestirli. La prima sarà quella dei «contratti di solidarietà», con riduzione per tutti delle paghe e dei tempi di lavoro. Se nemmeno questo dovesse bastare scatterà il collocamento in disponibilità. Significa due anni all’80% dello stipendio e poi, eventualmente, il licenziamento. Ma questa, dice la circolare, è solo la «extrema ratio».

Il passo del gambero sul caso dei vigili assenteisti

Il passo del gambero sul caso dei vigili assenteisti

Oscar Giannino – Il Messaggero

Sembrava una svolta drammatica, e finisce a opera buffa. Come spesso avviene in Italia e troppe volte nell’Italia “pubblica”, si parte tra pifferi e tamburi annunciando cambiamenti radicali ma il viaggio si rivela circolare, e dopo poco ci si ritrova mesti e sfiduciati allo stesso punto di prima. E quel che sta avvenendo nella vicenda dei 767 vigili urbani di Roma assenti dal servizio a Capodanno. Il presidente del Consiglio fece fuoco e fiamme annunciando sanzioni e punizioni. Il sindaco disse che la misura era piena. Ora, in capo a tre settimane, i numeri parlando da soli. E sono numeri che suscitano imbarazzo e incredulità, come capita quando ci si scopre vittima di una burla e ce la si prende con se stessi per esserci cascati. Perché di 767 vigili renitenti, i deferiti alla commissione disciplinare per malattia dubbia sarebbero in tutto e per tutto 6. Più un’altra ventina, forse non in regola per non aver risposto all’obbligo di reperibilità sostituiva.

Sei finti malati su 767 è una quantità che dice tutto. Se finirà davvero così, i sindacati dei vigili partiranno lancia in resta per chiedere le scuse ufficiali davanti a tutta Italia. E chissà che non le ottengano. Per il sindaco e per il premier sarebbe una bella figura da don Chisciotte e Sancho Panza. E per i romani e per tutti gli italiani una nuova doccia gelata di sfiducia e rassegnazione. Perché se non si schioda nulla nemmeno di fronte a un caso tanto eclatante, e come tale segnalato, vissuto e condannato dai massimi vertici politici nazionali e della Capitale, allora chiedere a tutti i cittadini di nutrire fiducia in svolte e cambiamenti pubblici diventa non un atto ragionevole, ma un atto di fede. Mettiamolo in chiaro: un esito tanto paradossale è un nuovo eclatante segnale che basta sapersi ben organizzare sul filo dei regolamenti e delle norme e si può continuare nel mondo pubblico a fare i furbi senza pagare ammenda. Altro che svolta.

Non stiamo generalizzando. Per favore ci si risparmino contestazioni sul fatto che manchiamo di rispetto ai vigili di Roma, al corpo e a tantissimi dei quasi seimila di loro. È l’esatto contrario: noi parliamo a difesa dell’onore e della dedizione di tantissimi vigili urbani e dipendenti pubblici. Non li accomuniamo ai furbi, né ai volpini sindacalisti che nella notte di Capodanno a Roma hanno orchestrato l’astensionismo di massa come sciopero non dichiarato: per il contratto, contro la rotazione, per la richiesta che la disponibilità festiva si paghi come straordinario, e per tutte le altre ragioni discutibili ma legittime se avanzate nelle forme di un magari muscolare confronto sindacale con il Comune, ma che in nessun caso e mai possono legittimare la renitenza al lavoro dietro le giustificazioni consentite a chi è malato per davvero, non a chi lo decide a tavolino.

Purtroppo, questo finale da opera buffa non ci fa ridere per niente. Conferma che le regole e i princìpi possono essere anche affermati nelle norme vigenti – visto che i falsi attestati di malattia sono già da anni causa di licenziamento per giusto motivo nel pubblico impiego – ma restano nella realtà sterili e inefficaci grida manzoniane. Comprova che, a furia di dirigenti pubblici inadempienti all’obbligo loro spettante di giudicare produttività e regolarità delle prestazioni di lavoro dei loro sottoposti, alla fine la collusione verso chi ne approfitta regna sovrana. Attesta che è inutile punire sulla carta i falsi certificati, se poi non si dispone di un servizio medico ispettivo operante in tutte le fasce del giorno per smascherare dipendenti finti malati e medici compiacenti.

Tutto questo i furbi lo sanno benissimo. Ed è di questo che si fanno forti. Questa è la ragione per la quale i sindacati insorgono contro chi considera quanto avvenuto a Capodanno una vergogna, urlando che si tratta di calunnie irrispettose. E tutto questo anche i politici lo sanno benissimo: perché sono loro per primi che da decenni non hanno spinto e obbligato i dirigenti pubblici a monitorare i comportamenti dei sottoposti, sono loro ad aver sospeso dal 2011 la comunicazione annuale al parlamento del rapporto sull’assenteismo pubblico e privato comparato. Ma, proprio per questo, politici che finalmente vogliano cambiare verso devono anche sapere che, una volta annunciata una svolta vera, che anche simbolicamente consegni al passato tanti decenni di collusione, allora tale svolta si deve vedere e toccare con mano, nei fatti e nei numeri. A Roma, sta succedendo l’esatto opposto. E vedremo se allo stesso modo finirà anche la partita del salario di produttività, se terminerà davvero l’era che lo vede spalmato a tutti in parti uguali, perché nessuno davvero giudica gli obiettivi conseguiti dal lavoro pubblico secondo veri parametri e risultati noti ex ante e misurabili ex post.

La serietà di un Paese si giudica innanzitutto dalla serietà con cui chi lo serve viene considerato e rispettato. Sei deferiti e 761 salvati vorrebbe dire non prendere sul serio non solo i cittadini romani che pagano le tasse, e quelli di tutta Italia che hanno contributo a due decreti salva-Roma in pochi anni. Significa innanzitutto non prendere sul serio e mancare di rispetto ai tantissimi dipendenti pubblici che non lo meritano, e sui quali cadrà ancora una volta il discredito popolare. Messa così non è un film che finisce in bonarie risate alla Toto e Peppino. A giudicare dalla vicenda capitolina, la riforma della PA italiana rischia di essere un film di Buñuel, che fa restare solo l’amaro in bocca.

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

Andrea Bassi – Il Messaggero

La percentuale è bassa. Quasi irrisoria. Solo lo 0,007%. Su tre milioni circa di dipendenti pubblici, i casi di licenziamento per motivi disciplinari in un anno, il 2013 l’ultimo per il quale i dati sono disponibili, sono stati 220 in tutto su un totale di circa 7 mila procedimenti avviati. Novantanove di questi, il 45 per cento del totale, sono stati messi alla porta per assenze ingiustificate dal servizio; altri settantotto (il 36 per cento) per aver commesso reati; trentacinque, il 16 per cento, per inosservanza delle disposizioni di servizio, per negligenza o per comportamenti scorretti nei confronti di colleghi e superiori. Solo sette, invece, i licenziamenti per doppio lavoro non autorizzato e nessuno nel comparto scuola. Sono stati, invece, circa 1.300 i provvedimenti di sospensione dal lavoro.

I numeri sono stati appena diffusi dall’Ispettorato della funzione pubblica, l’organismo del ministero guidato da Marianna Madia che si occupa di verificare la correttezza dei comportamenti dei dipendenti pubblici. Lo stesso ispettorato inviato a indagare sulle assenze dei vigili urbani di Roma nella notte di San Silvestro. Non è un caso che i numeri siano stati diffusi proprio in questi giorni. In settimana ripartirà in Commissione Affari Costituzionali del Senato l’iter della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il governo e il relatore del provvedimento, Giorgio Pagliari, dovrebbero presentare delle proposte di modifica all’articolo 13 del testo, quello che affronta proprio il tema del licenziamento dei lavoratori del pubblico impiego.

Nei giorni scorsi il ministro Madia ha messo alcuni paletti. Ha, per esempio, chiarito che nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari dichiarati illegittimi dalla magistratura, per gli statali, a differenza dei lavoratori privati, rimarranno le tutele dell’articolo 18 nella versione precedente le modifiche del «jobs act». In pratica se ad essere licenziato illegittimamente sarà un lavoratore pubblico, avrà sempre diritto al reintegro nel posto di lavoro. Per i lavoratori privati, invece, il reintegro rimarrà solo una possibilita residuale, quando cioè il fatto contestato dal datore di lavoro si sarà dimostrato del tutto inesistente. In tutti gli altri casi i lavoratori privati avranno solo diritto ad un indennizzo monetario crescente che, al limite, potrà arrivare a 24 mensilità di stipendio.

Cosa dirà allora l’emendamento che il governo e il relatore si preparano a depositare? Secondo quanto annunciato dal ministro Madia, ci sarà una delega specifica per semplificare le procedure di licenziamento disciplinare già previste dalla riforma Brunetta. In particolare l’intenzione del governo sarebbe quella di agevolare soprattutto quelle per «scarso rendimento». Una possibilità che la legge Brunetta già prevede. Le norme attuali stabiliscono che il lavoratore possa essere messo alla porta se riceve una valutazione insufficiente del rendimento per almeno un biennio. Ma dalle tabelle pubblicate dall’Ispettorato della Funzione pubblica, almeno per il 2013, nessun lavoratore risulta essere stato licenziato con questa motivazione. Il problema è che la valutazione dei dipendenti statali, seppure esplicitamente prevista, è rimasta fino a questo momento sulla carta.

Sempre la riforma Brunetta prevede che ogni anno gli statali ricevano un voto per poter accedere ai premi. Il 25 per cento dei lavoratori più bravi dovrebbe portarsi a casa un super-premio del 50 per cento delle risorse del trattamento accessorio, un altro 50 per cento un premio più basso in quanto dovrebbe dividersi il restante 50 per cento del salario accessorio, mentre l’ultimo 25 per cento dei dipendenti, quelli meno produttivi, non riceverebbe alcuna gratifica. L’avvio di questo meccanismo era legato tuttavia alla contrattazione collettiva. Essendo i contratti bloccati da ormai cinque anni consecutivi, non se ne è mai fatto nulla. Adesso il governo, attraverso la delega sulla pubblica amministrazione, ha intenzione di riprendere in mano il capitolo della valutazione rendendola effettiva.

Giochi, a rischio 700 milioni per il Tesoro

Giochi, a rischio 700 milioni per il Tesoro

Andrea Bassi – Il Messaggero

Il fuoco che covava sotto la cenere sta per divampare. Prima ci sono state le proteste dell’Acadi, l’associazione che raggruppa i concessionari delle slot machine, che ha acquistato pagine di giornali per protestare contro la tassa di 500 milioni imposta dal governo sul settore con la legge di stabilità. Adesso è il turno dei bookmaker esteri, una rete di circa 7 mila punti considerata illegale dai Monopoli. Sempre nella legge di bilancio, il governo ha introdotto per loro una sorta di sanatoria. Il pagamento di una tantum di 10mila euro a punto scommessa più le tasse non versate, per emergere dalla zona grigia.

Il tempo per aderire all’offerta è stretto, scade dopodomani. Ma, come riporta l’agenzia specializzata Agipronews, tutti i big del settore hanno dato indicazione ai loro affiliati di non accettare il patto offerto dallo Stato. Ha detto no Stanley-Bet, l’operatore inglese che da anni ha in piedi un contenzioso con lo Stato italiano. Ha detto no Sks365, e ha chiuso le porte in faccia ai Monopoli anche Betuniq. Questi tre operatori, da soli, costituirebbero oltre la metà del mercato grigio italiano. Senza di loro, insomma, la sanatoria del governo Renzi rischia di essere un flop. Un problema che rischia di ripercuotersi a breve anche sui conti pubblici. Nel 2015, dall’operazione di regolarizzazione, sono attesi 220 milioni di euro. I primi 35 milioni sarebbero dovuti arrivare nelle casse dello Stato già alla fine del mese, il 31 gennaio, data prevista per il versamento della una tantum di 10mila euro. Secondo Betuniq il governo ha ignorato la richiesta della Corte di Giustizia Europea di permettere agli operatori stranieri, con licenza di uno stato Ue, di «operare in Italia». Sulla stessa linea Stanley-bet, che ha bocciato la manovra definendola «una finta sanatoria, finalizzata in realtà a privare i centri scommesse dei diritti acquisiti dopo 15 anni di battaglie giudiziarie». «Forse››, ha commentato Maurizio Ughi, amministratore di Obiettivo 2016, «sarebbe stato più logico che la sanatoria venisse fatta verso i bookmaker e non verso i punti vendita. Non mi stupisco», ha aggiunto, «che gli operatori abbiano detto di no». Il punto è che lo schiaffo dei bookmaker avviene in un passaggio delicato per il mondo dei giochi.

Tra qualche giorno il capo dei Monopoli, Luigi Magistro, lascerà il suo incarico per assumere quello di commissario per il Consorzio Nuova Venezia. Il suo posto potrebbe essere preso da Alessandro Aronica, attuale direttore del personale delle Dogane, che sul suo tavolo troverà una serie di questioni irrisolte. Buona parte delle coperture della manovra del governo Renzi sono state costruite sul settore dei giochi. Oltre ai 220 milioni della sanatoria, ci sono i 500 milioni della nuova tassa sui concessionari delle slot, 350 milioni della gara per il gioco del Lotto, e altri 540 milioni per le sanzioni alle slot scollegate. Ma molti di questi introiti rischiano di rimanere sulla carta. A partire proprio dai 500 milioni della tassa che colpisce l’intera filiera delle slot machine. In questo caso il problema è strettamente finanziario. La tassa va anticipata dai concessionari. Ma la maggior parte degli operatori, molti partecipati da fondi stranieri, non ha disponibilità per pagare una somma che in alcuni casi può risultare superiore ai fatturato. Le uniche con le spalle larghe in grado di sostenere l’onere, sarebbero le big come Lottomatica e Sisal. Ma c’è il rischio di una cannibalizzazione dell’intero settore. Un esito che il governo non vorrebbe, e che avrebbe causato irritazione nei confronti dei Monopoli dove la norma è nata, tanto che al Tesoro si sta valutando di sostituire la tassa da 500 milioni con un aumento di due punti percentuali del prelievo unico erariale sui giochi.

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Oscar Giannino – Il Messaggero

È importante la conferma venuta ieri dal ministro Padoan al Messaggero del programma di quotazioni pubbliche. Nel 2015 il governo collocherà sul mercato il 40% di Poste e Ferrovie, e il 49% di Enav. Per evitare sussidi incrociati sarebbe meglio per Poste e Ferrovie prima separare le attività di servizio universale da quelle gestite in concorrenza con privati. Ma in ogni caso è un bene quotarle pur senza cederne all’inizio il controllo. La disciplina e il premio ai risultati che vengono dai mercati finanziari rappresenta comunque un passo avanti rispetto all’opacità gestionale della mano pubblica (basti vedere l’efficienza guadagnata da Eni ed Enel quotati, rispetto a quando non lo erano). Due osservazioni sono però essenziali. La prima su una cosa che manca al suo elenco. La seconda su una cosa che invece si appresta a fare.

Alla lista di dismissioni di Padoan mancava un pezzo che la settimana scorsa Renzi ha annunciato: la decisione di metter mano alle quasi 10mila controllate e partecipate pubbliche di primo livello di Comuni e Regioni. Ad aprile scorso, tutto il lavoro di ricognizione e classificazione svolto da Cottarelli, nonché le sue proposte concrete già scritte per intervenire, sono rimasti nei cassetti. Sappiamo tutto quel che c’e da sapere. Che solo un terzo di esse sono nei 5 settori tradizionali delle utilities locali – elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto – e che di loro oltre i due terzi sono sotto una soglia minima di fatturato che le possa rendere efficienti. Sappiamo quante complessivamente sono in perdita e di quanto, e si tratta di miliardi. L’indagine in corso a Roma, dove con Atac e Ama si concentrano 2 delle municipalizzate storicamente più produttrici di debito e clientelismo, ha spinto palazzo Chigi a dire che ora è il momento giusto per rompere gli indugi. Il governo si muova, allora. Come speriamo che già nella legge di stabilità vengano approvate proposte come quella avanzata da Linda Lanzillotta, che vincola le risorse per il risanamento di Roma Capitale alla cessione, secondo alcuni criteri di garanzia, delle partecipate a cominciare da quelle in perdita.

Anche perché tra pochi giorni ci troveremo di fronte a un intervento del governo che non è di privatizzazione, ma di rinazionalizzazione: dell’Ilva a Taranto. Il commissario Gnudi ha detto un’elementare verità: “nessun privato rileverebbe ora l’Ilva, sequestrata dai magistrati”. È impossibile a chiunque non sia dietro l’egida dello Stato avanzare oggi un piano industriale per quella che era la più grande acciaieria a ciclo continuo d’Europa. I pm hanno nel tempo esercitato la facoltà di espropriare il patrimonio sociale, la liquidità dell’azienda, gli input di produzione, i prodotti finiti, anche il patrimonio dei soci privati fuori dal gruppo. E ora si tratta anche di espropriare il restante titolo di nuda proprietà, dei Riva e degli Amenduni. Il modo in cui Renzi e Padoan interverranno sull’Ilva è essenziale: a seconda di come la rinazionalizzazione verrà decisa, rischia di compromettere la fiducia verso l’Italia invece di consolidarla. Ci sono dunque tre condizioni.

Primo: deve trattarsi di un intervento a tempo, in vista del risanamento ambientale e della restituzione poi del controllo dell’Ilva a privati. Non basterà dirlo a voce, bisogna dirlo in un cronoprogramma scritto nello stesso decreto. Beneduce, il grandissimo manager pubblico che pur da socialista riformista collaborò con Mussolini e s’inventò l’Iri nel 1933, disse in lungo e in largo che era solo a tempo, la nazionalizzazione delle industrie compromesse dalla crisi e finite ad affondare le stesse banche che le partecipavano. E che l’Iri, restituitele al mercato, sarebbe stato a quel punto liquidato. Ma Beneduce morì, e l’Iri è durato 69 anni, fino al 2010, giungendo a sfiorare il mezzo milione di dipendenti. Evitiamo di ripetere l’errore.

Secondo: proprio nell’acciaio lo Stato si è mostrato un pessimo gestore. La Finsider, che realizzò l’attuale Ilva di Taranto, perse oltre 20mila miliardi di lire nei 15 anni pre-privatizzazione. L’Iri alla fine fu travolto proprio per i debiti contratti nell’acciaio. Lo Stato non può credere di avere oggi manager capaci di interpretare il difficile mercato mondiale dell’acciaio, spostatosi tutto verso il Far East asiatico, meglio dei grandi gruppi privati che con l’acciaio si misurano ogni giorno.

Terzo: la mano pubblica a tempo deve servire a fare della bonifica delle cokerie e del parco minerario un banco di prova europeo, visto che in Germania e Polonia esistono impianti con caratteristiche analoghe (ma non espropriati…). Uscire dal ciclo continuo con altiforni, per produrre acciaio con syngas o preridotto, stride con l’interesse di un paese manifatturiero come il nostro, ed è incompatibile con gli 11mila dipendenti di Taranto e con le migliaia nell’indotto. Saremmo l’unico paese al mondo in cui le modalità produttive vengono decise da un pm in sede di indagine preliminare. Lo Stato deve riaccompagnare l’Ilva a produttività e utili che esprimeva. Tenendo la guardia alta, perché il rischio è che si riscateni chi pensa che lo Stato deve tornare a fare anche i panettoni.