claudio marincola

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Claudio Marincola – Il Messaggero

Che ci fa la presidenza del Consiglio nello stesso calderone di Afragol@net srl? E l’Agenzia del demanio con l’azienda del cavalier Marco Rossi Sidolì? L’Istituto Ville Tuscolane con il Cnel o con il Cnr? Fanno parte della stessa famiglia, una grande famiglia allargata: 363 amministrazioni arcinote o misconosciute tenute insieme da un filo. Tutte, grandi o piccole, sono inserite nel conto economico consolidato della Pubblica amministrazione. Avrebbero dunque l’obbligo di seguire le stesse regole di bilancio, programmare le entrate, pianificare le uscite, monitorare e rispettare i tetti di spesa per gare, retribuzioni, consulenze, etc, etc. Ogni anno l’Istat, che ne fa parte, aggiorna l’elenco pubblicandolo sulla Gazzetta ufficiale ai sensi della legge 3l dicembre 2009, n.196. Elenco che anziché diminuire misteriosamente si espande come il polistirolo (nel 2013 erano 293). Risultato: orientarsi in questo dedalo di enti – autorità amministrative indipendenti, strutture associative, federazioni sportive, istituti di ricerca, amministrazioni locali, camere di commercio, consorzi di bonifica, fondazioni, spa, enti di previdenza – è quasi impossibile. La trasparenza – a parte qualche eccezione – è un optional. Link che rimandano ad altri link fino a perdersi nel vortice nero del web. Sarà un caso ma la “controllabilità” della spesa – ferita che sanguina, all’origine dell’emorragia del nostro debito pubblico – e la verifica degli andamenti della finanza, passa proprio da questa giungla.

La giungla
C’è l’Accademia della Crusca; il Museo storico della Liberazione; la Federazione italiana bocce; la Fondazione Biennale di Venezia; il Festival dei Due Mondi; lo storico Cnr, fondato nel 1923 e ora sottoposto alla vigilanza del Miur; il Cnel, svuotato ormai di fondi e tra non molto anche di personale; l’Enit, che si occupa di turismo ma sta per essere rivoltato come un calzino; quel che resta dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero, persino Equitalia, e l’Agenzia per le Entrate ma anche Itcity.it, una partecipata del comune di Parma. E poi c’è il Fondo edifici di culto. Un fondo immobiliare nato nel 1866 per gestire il patrimonio della Chiesa, 750 edifici religiosi, abbazie, basiliche, incamerati dallo Stato e sparsi per la Penisola. Fino al 1932 il Fondo ricadeva sotto il ministero di Grazia e giustizia, dal 1932 è passato al ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. C’è di tutto e di più, insomma.

Esodati e felici
Poteva mancare in questo gigantesco rassemblement la Resais spa? Cos’è? Fu creata dalla Regione Sicilia per assorbire i dipendenti degli enti Azasi, Ems ed Espi (l’ex Fiera del Mediterraneo). Un’azienda partecipata al 100% e nata per ricollocare il personale in esubero: ha la mission di accompagnare fino alla pensione i dipendenti che non hanno ancora i requisiti. Qualche tempo fa erano 257, retribuiti con lo stipendio base e lasciati a casa. “Oneri sociali” a tutti gli effetti che avrebbero potuto essere spalmati in altri settori della PA, in uffici dove il personale è carente. Alcuni lo hanno chiesto e ottenuto. Altri no. Così che «Resais» a Palermo e dintorni fatalmente è diventato «un sogno», l’aspirazione segreta a una condizione umana e sociale di dipendente messo da parte ma stipendiato. Un esodato felice. Nata come si diceva per accompagnare i lavoratori alle panchine dei giardinetti pubblici, Resais può utilizzare gli ammortizzatori sociali a tempo indeterminato o quasi. Il primo a concepire questa lampada di Aladino fu nel 1986 l’allora presidente dell’Ars, Nicolais. Si era pensato di chiuderne l’attività nel 2020. Poi sono arrivati i 50 dipendenti dell’ex Fiera. Potevano restare fuori? No. E l’orologio è stato spostato al 2030. Pazienza se in questo modo c’è chi usufruirà di scivoli decennali.

La grande mamma
Mai avuto dubbi. La PA è una grande mamma – o forse una manna – che costa milioni e milioni. E nessuno che muova un dito, che si stupisca. Anzi. Il 4 giugno dello scorso anno una delegazione di lavoratori della Resais spa marciò verso l’Ars al grido di «giù le mani dallo stipendio»; fu ricevuta da Mariella Maggio, vice presidente della commissione Lavoro; chiese e ottenne l’applicazione della legge regionale 26/2012, la garanzia della salvaguardia occupazionale e il recupero delle spettanze arretrate.

Il sottotetto
Che non si dica che certe cose accadono solo in Sicilia. Ci mancherebbe. Della grande famiglia fa parte anche l’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura. La cassaforte del ministero delle Politiche agricole in cui transitano 5 miliardi di euro è al centro di varie inchieste e interrogazioni parlamentari (l’ultimo caso è l’indagine della Procura di Roma su una presunta maxitruffa sui contributi). Come tutti gli enti sottoposti ai controlli l’Agea è tenuta a rispettare i tetti delle retribuzioni. I due dipendenti di prima fascia guadagnano rispettivamente 214.199 mila euro e 166.546 mila euro l’anno, compresa l’indennità di risultato. Più di loro guadagna il direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura, il Cra, anch’esso nell’elenco Istat. Essendo il tetto fissato a 240 mila euro lordi – scrive nella sua interrogazione il deputato di Sel Zaccagnini- la dirigente si è ridotta lo stipendio di 42 euro e 97 centesimi l’anno, attestandosi nel più congruo “sottottetto” di 239.957,03 euro lordi. Quando si dice: spending review.

Il torto
Per non far torto a nessuno va citata a questo punto anche l’Inea, l’Istituto di economia agraria che finanzia le ricerche economiche. L’articolo 32 della Legge di stabilità ne prevede la fusione con il Cra. Ma l’accorpamento non fermerà 1’indagine avviata dalla Procura di Roma sulle consulenze esterne affidate tra il 2007 e il 2010. PA che vai “pasticcio” che trovi? Non sempre. Ci sono anche le eccellenze. La Fondazione Gioacchino Rossini Opera festival; l’Istituto culturale ladino; 1’Agenzia per l’Italia digitale (che si regge con un finanziamento di 1 milione 721.669 euro). In questo spaccato che racconta il nostro Paese da cima a fondo non poteva mancare l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Discorso a parte meriterebbero infine i consorzi di bonifica, istituiti dal duce. Li accusano di essere trasformati in poltronifici. Vorrebbero chiuderli. Ma la grande famiglia non abbandona nessuno.

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

Claudio Marincola – Il Messaggero

Li creò il duce, e d’allora prosperano. Qualcuno vorrebbe sopprimerli con un colpo di spugna. Qualcun altro parla invece di riordino. E su questo nodo che non si scioglie e si aggroviglia sempre più si va avanti da anni. Centoventi consorzi di bonifica che hanno competenza interregionale. Cui si aggiungono altri 25 enti di bonifica montana “di miglioramento fondiario”. Sfumature diverse e latitudini diverse ma la stessa mission: il «miglioramento fondiario». Sono “le sentinelle dei fossi”; “i presidii del territorio”, più spesso, purtroppo, “gli angeli del fango”. Ma quanto ci costano? Il Belpaese frana, 8 Comuni su 10 sono a rischio. La mappa del dissesto idrogeologico è sconfinata: per la bonifica – isole comprese – servirebbero almeno 8 miliardi di euro. E loro si dicono disposti a gestire una bella fetta dell’emergenza maltempo. Sono tutti affiliati all’Anbi, l’associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari.

Hanno messo radici profonde, sono carrozzoni per un certo verso ormai “irrottamabili”. Si occupano di salvaguardia ambientale, regolazione idraulica, difesa del territorio, flussi. Disciplinati dal regio decreto 215 del 1933, noto anche come legge Serpieri, dal nome del padre fondatore della bonifica integrale. Mettono insieme un esercito di circa 7500 dipendenti. In Toscana, dove ogni anno entrano in cassaforte circa 130 milioni di euro, su 500 dipendenti gli operai sono solo 160. Il presidente di un consorzio toscano si mette in tasca 33.500 euro l’anno. Un consigliere in media 30 euro a gettone di presenza. Sono retti da amministratori nominati in parte da enti locali, in parte da consorziati. Così che negli anni sono saliti a bordo burocrati di vario genere, ex politici, trombati, riciclati, a volte a parziale risarcimento delle spese elettorali. La percentuale dei votanti normalmente è irrisoria, di rado supera il 2% degli aventi diritto.

La sforbiciata
Il progetto per eliminarli ci sarebbe. Si chiama «sforbicia Italia», annunciato da Matteo Renzi all’indomani dell’arrivo al governo. I consorzi di bonifica hanno incassato dati alla mano (2012), solo di “contribuenza” 579 milioni di euro, di cui 212 a carico dei proprietari urbani. Ai quali bisogna aggiungere i contributi di Regioni, Province e Comuni. Con gli anni e data la fragilità congenita del nostro assetto idrogeologico le funzioni si sono ampliate: sempre più spesso sostituiscono gli enti locali andando oltre così il perimetro del regio decreto che li ha istituiti. L’obiettivo dei consorzi è ampliare il raggio d’azione: estendere la base imponibile e dunque il numero e il valore delle contribuzioni. Che vuol dire ampliamenti, interventi su immobili e territori lontani chilometri e chilometri dalle opere ritenute necessarie di bonifica. C’è chi si è visto addebitare contributi per opere realizzate decine di anni prima. Di tanto in tanto spunta fuori qualche scandaluccio. Chi li paga? Versano il contributo annuale di bonifica tutti i proprietari di beni immobili, terreni e fabbricati ricadenti all’interno del perimetro di bonifica che ricevono benefici dall’ente.

Rosso fisso
In Sicilia operano 11 consorzi di bonifica che costano circa 120 milioni l’anno. Sono chiamati a gestire tra l’altro la distribuzione dell’acqua che notoriamente scarseggia per via della rete- colabrodo. Il consorzio di Siracusa è in rosso per 20 milioni, Palermo di oltre 15. Chi li ripianerà? Il rapporto tra estensione del territorio e dipendenti è una delle tante incongruenze siciliane. Con il caso limite di Messina: un dipendente ogni 2,2 ettari. La risposta a chi accusa i consorzi di essere sovradimensionati è che le condutture sono fatiscenti e le infrastrutture carenti. Questo non ha impedito a Catania che la procura aprisse un’inchiesta sulle consulenze e le assunzioni facili. Per non parlare delle controversie sulla stabilizzazione dei lavoratori. Il fenomeno non riguarda solo la Sicilia, naturalmente.

La proposta
I consorzi hanno svolto in passato un ruolo di particolare rilievo per l’agricoltura italiana. Questo è fuori discussione. Ma il ruolo andrebbe ripensato. Gli interventi per modificarli sono stati innumerevoli. Non si contano i commissariamenti, le chiusure per liquidazione, le inchieste. Con le proposte di legge per cambiarli o abolirli ci si potrebbero scrivere enciclopedie. Il deputato aretino Marco Donati (Pd) ha presentato nello scorso novembre una proposta di legge firmata da un gruppo di deputati renziani. Con la benedizione del premier potrebbe andare a dama. Si chiede che le competenze e le funzioni vengano trasferite «a enti già costituiti all’entrata in vigore delle nuova legge». Donati spiega: «In Toscana la necessità di semplificare il rapporto tra cittadini e istituzioni è molto sentito. La mia proposta va in questa direzione. Sono istituti che possono essere integrati nelle Regioni e nei Comuni. Più che una politica è una filosofia, un’operazione simile alla riduzione delle municipalizzate». Non più consorzi lottizzati, trasparenza, dipendenti assorbiti dagli enti locali. Più semplice pianificare gli interventi. Proprio in Toscana, nell’ultima alluvione, si è scatenata l’ennesima polemica tra i consorzi e il governatore Enrico Rossi per interventi mai iniziati o non a regola d’arte. Accuse, scaricabarile, etc, etc. L’Italia dei siparietti che non cambia mai.