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Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

“Sto guardando con attenzione e preoccupazione tutto quello che accade nel sistema del credito del Veneto. Io sono un piccolissimo azionista sia di Veneto Banca che di Popolare di Vicenza. Auguro buon lavoro ad entrambi i vertici ricordando che la Regione è assolutamente a disposizione”. Così Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, oggi a Venezia, in merito alla situazione delle banche popolari in Regione. “Noi – ha continuato Zaia – ci aspettiamo da un lato un bel piano industriale che possa riportare queste banche sul mercato con solidità ed inoltre che si recuperi credibilità. Spero, ed io mi batterò per questo, affinché restino il nostro istituto di riferimento veneto e quindi banche del territorio”.

“Banche – ha aggiunto il governatore – che hanno sempre aiutato i veneti ma è necessario fare chiarezza perché azioni che passano da 60 euro a 0,10 centesimi o da 40 euro a 1 euro o 50 centesimi, sono azioni che hanno avuto comunque un crollo verticale, non giustificabile dai mercati o da altri fattori”. “Questa – ha proseguito Zaia – è un’inquietudine che noi risparmiatori abbiamo in quanto questo valore era stato fissato passando per il vaglio di controllori, di società di revisione, di banca d’Italia e quindi è anche un fatto di credibilità e per questo motivo dobbiamo fare chiarezza. Niente giustizialismo, è importante fare chiarezza. Se c’è qualcuno che ha sbagliato ovviamente dovrà pagare. Resta comunque, da parte mia, la fiducia per le procure che comunque stanno indagando su questi fronti”. Per quanto riguarda la commissione d’inchiesta in Regione, il presidente veneto ha dichiarato: “Sono state fatte molte audizioni e si continuerà. Si aggiunge poi una volontà da parte mia, che ho presentato l’articolo di legge, di dare 300 mila euro come prima tranche per le spese legali e quindi modo a chi non ha possibilità di difendere i propri interessi, penso soprattutto ai piccoli risparmiatori o piccoli consumatori”.

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Renato Brunetta (Fi)*

“I quotidiani sottolineano tutti una distensione nei rapporti tra Merkel e Renzi, ma su due punti è chiaro che la Germania non ci sente: gli eurobond per fermare l’immigrazione e le banche, con la evidente differenza di trattamento tra le regole imposte all’Italia e quelle agli istituti tedeschi”. Lo scrive su Facebook Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.

“Renzi ha perso una eccellente occasione per levarsi di dosso, con la doverosa gentilezza dell’ospite, la livrea di vassallo sia pure lievemente dissidente e un po’ ribelle della Germania, ridando un po’ di orgoglio patriottico all’Italia. Una dichiarazione comune sull’impegno per la Libia, con una messa in riga di chi fa i suoi giochetti con le varie fazioni, sarebbe stata bene accetta. Oggi noi appaiamo insieme alla Germania gli alleati di Turchia-Tripoli-Fratelli Musulmani contro Francia e Russia che appoggiano l’Egitto-Tobruk. (America di Obama con molti piedi e molte scarpe)”, conclude Brunetta.

*Capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati

Marino (Pd): “Decreto banche? C’è spazio per migliorare sui rimborsi”

Marino (Pd): “Decreto banche? C’è spazio per migliorare sui rimborsi”

Mauro Maria Marino (Pd)*

“C’è spazio di miglioramento sull’oggettività dei criteri” per i rimborsi per gli ex obbligazionisti subordinati di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. A sostenerlo è Mauro Maria Marino, relatore e presidente della commissione Finanze del Senato, dove è stato avviato l’iter dell’ultimo decreto Banche varato dal governo.

Non ci saranno nuove audizioni di rappresentanti del sistema bancario, già sentiti nell’ambito di un’indagine conoscitiva della stessa commissione, ma saranno ascoltati probabilmente sia i risparmiatori sui criteri legati agli indennizzi sia le imprese sulla parte del decreto legata al recupero dei crediti.

Marino ha precisato che la commissione Finanze avrà come obiettivo quello di “permettere alla Camera di avere un mese di tempo per esaminare il provvedimento. Ho invitato i colleghi ad agire per questo fine”. Se questo invito verrà accolto, ai primi di giugno dovrebbe esserci il via libera di Palazzo Madama e il passaggio del testo a Montecitorio.

* Presidente della commissione Finanze del Senato

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Duecentonove miliardi: a tanto ammonta il conto che la crisi del nostro sistema bancario ha presentato ai risparmiatori e agli investitori.

Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre 2015, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi.

Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.

Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori.

Gli azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, poi, in forza del processo di riorganizzazione in atto (aumenti di capitale e IPO), hanno subito (o stanno subendo) perdite per complessivi 8,2 miliardi di euro. Tali valori sono stati stimati prendendo come riferimento i valori a cui sono state acquistate dagli investitori/risparmiatori le azioni di queste banche e confrontati con gli attuali valori, prossimi allo zero. Va ricordato, infatti, che Banca Popolare di Vicenza valeva al suo massimo €62,50 euro per azione mentre Veneto Banca toccò qualche anno fa quota €39,50 euro per azione posseduta.

Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Secondo i dati di Borsa Italiana elaborati da ImpresaLavoro il settore delle banche italiane risulta aver bruciato – rispetto al 2007 – 197,6 miliardi divisi tra diminuzione del valore di capitalizzazione (148,7 miliardi) e aumenti di capitale effettuati (e bruciati) dal 2008 ad oggi (48,9miliardi). Le 17 banche quotate capitalizzavano in Borsa nel 2007 circa 230-240 miliardi di euro mentre oggi i valori di capitalizzazione si aggirano attorno agli 85 miliardi.

Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche, sostanzialmente comune a tutto il sistema, è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.  Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.

credito

 

Guerra di sigle e di generazioni

Guerra di sigle e di generazioni

di Giuseppe Pennisi*

Una nuova sigla entrata da qualche giorno nella galassia degli acronimi giornalistici e nel dibattito di politica previdenziale (e, quindi, di finanza pubblica): APE, ossia Anticipo Pensione. Pochi si sono accorti che nella galassia esiste già un APE, Attestato di Prestazione Energetica, come sanno tutti coloro che vogliono vendere od acquistare un immobile. Prima o poi, la “guerra” delle APE troverà una soluzione, anche in quanto la flessibilità in uscita, con pensionamento anticipato, pare ancora lontana, quanto meno per coloro che non hanno fatto lavori “usuranti” per diversi anni o che non hanno cominciato a lavorare quando erano molto giovani (nel gergo INPS “i precoci”).

Ma è, poi, realmente in atto una guerra tra vecchi e giovani, ammesso che ci sia piena sostituibilità tra lavoratori più o meno anziani sul posto di lavoro? Non sembra che ci sia. Una quindicina di anni fa, su istanza di associazioni di senior citizen, la Corte Suprema americana ha sentenziato che stabilire un’età legale di pensionamento (allora in numerose aziende USA era a 67 anni) è un’incostituzionale discriminazione contro gli anziani; da allora frotte di americani restano al lavoro quanto vogliono e quanto possono.

Non sono i soli. In questa rubrica abbiamo già ricordato come analisi internazionali dimostrino che andare troppo presto in pensione causa disturbi mentali che spesso accorciano la vita. Un team di economisti delle Università di Londra e di Amburgo (Gabriel H. Ahfelt, Wolfang Maenning, e Malte Steenbeck) ha appena pubblicato un lavoro (Après Nous Le Déluge? Direct Democracy and Intergenerational Conflict in Aeging Societies CESiffo Working Paper Series No. 5779) in cui con un’analisi quantitative in base a procedure quali quelle promosse nel volume del Centro Studi Impresa Lavoro La Buona Spesa – Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa analizza un caso specifico: il maggior progetto infrastrutturale di oggi, i cui costi gravano su questa generazione di tedeschi a benefico delle future. La conclusione è che i conflitti intergenerazionali derivanti dall’invecchiamento della popolazione sono limitati ad un limitato numero di casi in cui il valore attuale netto varia molto significativamente tra classi di età. La proposta è quella di utilizzare in questi casi non lo strumento referendario ma l’analisi costi-benefici economica.

Tornando alle pensioni, di grande interesse di lavoro di Riccardo Calcagno, Flavia Coda Moscarola, Elsa Fornero pubblicato il 27 aprile come Cerp Working Paper 161/16. Eloquente il titolo “Too busy to stay at work. How willing are Italian workers “to pay” to anticipate their retirement?” (‘Troppo occupati per restare al lavoro: quanti italiani sono disposti a ‘pagare’ per anticipare la loro pensione?’). È un’analisi statistica su un campione di lavoratori italiani di almeno 55 anni e la loro ‘disponibilità a pagare’ per anticipare di un anno il pensionamento. La preferenza per una pensione anticipata (ovviamente ridotta) è marcata per le donne e per i lavoratori immediatamente colpiti dalla riforma del 2011 (quali i così detti ‘esodati’). Le donne che curano figli e nipoti, o genitori anziani, sono pronte a pagare anche un prezzo elevato per andare prima in pensione. Ciò indica che il sistema previdenziale può causare “effetti collaterali” se non accompagnato da altre misure di politica sociale, quali quelle per la cura dei congiunti.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Blasoni: Una medicina sbagliata

Blasoni: Una medicina sbagliata

Massimo Blasoni – Panorama

Nel 1992 il governo Amato passò alla storia della nostra Repubblica per aver messo le mani sui risparmi delle famiglie italiane con un gesto eclatante come quello del prelievo forzoso sui conti correnti. Se qualcuno provasse oggi a ripetere quell’operazione porterebbe nelle casse dello Stato poco più di 3 miliardi di euro. Una cifra certamente importante ma che impallidisce davanti alla stretta fiscale che i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi hanno imposto ai nostri risparmi, introducendo nuove tasse per ben 8,2 miliardi.

Si tratta di manovre che valgono due volte e mezza il prelievo forzoso del 1992. Il clima di emergenza finanziaria e le modalità più soft hanno reso la medicina meno amara ma la cura continua ad essere quella sbagliata. In un Paese frenato da una pressione fiscale già molto elevata si è scelto di aggredire uno dei pilastri della nostra società, la capacità di risparmio delle famiglie. Un eccesso di imposizione che aggiunge altre mille gabelle ad un prelievo sui fattori produttivi (redditi di impresa e da lavoro) già tra i più alti in Europa.

Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti*

Siamo sempre più emarginati ed isolati dal resto di Europa, un quadro fiscale che deve mettere paura non solo ai cittadini italiani ma allo stesso governo. Dialoghiamo costantemente con i Paesi presi in esame, ed è sentito da tutti il bisogno di rivedere il sistema fiscale di ogni Paese membro della Ue.

L’Euro necessita di un eguale sistema fiscale, un eguale costo della manodopera e un eguale costo delle materie prime per diventare forte e unita. Del resto i numeri parlano chiaro, l’Italia continua a pagare un prezzo troppo alto in vite umane e imprese chiuse con gravi ripercussioni sull’occupazione e sulle stesse entrate erariali. Non si capisce come mai un discorso tanto semplice appaia incomprensibile alla classe politica.

*Da Blasting News

Noi Consumatori: “Italiani schiavi del macigno fiscale”

Noi Consumatori: “Italiani schiavi del macigno fiscale”

Angelo Pisani* – Noi Consumatori

Non ci si deve domandare perché le aziende delocalizzano all’estero tagliando i posti di lavoro in Italia. È evidente che una pressione fiscale così asfissiante non può che frenare la crescita e l’economia di un Paese, che solo grazie agli alti livelli produttivi e di elevate capacità dei suoi imprenditori e lavoratori riesce ancora a “reggere” nel contesto europeo».

*Presidente di NoiConsumatori.it

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.

C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depsiti bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04%  e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.

Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.

Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.

L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.

Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario.

Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.

Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari.

Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.

Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.

Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro