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Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni

Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Panorama

La pressione dell’insieme di imposte e tasse sul nostro Pil è passata dal 20% del 1975 al 50%, in termini reali, del 2015. Un incremento enorme sia delle imposte dirette che di quelle indirette e che non ha lasciato indenni né la casa né i nostri risparmi» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2010 ad oggi le tasse sulle abitazioni sono passate da 32 a 50 miliardi e quelle sul risparmio da 9 a 16. La Total Tax Rate sulle imprese è tra le più alte al mondo e raggiunge il 65,4% dei redditi prodotti dalle nostre aziende. È indifferibile, quindi, un’azione di contenimento del carico fiscale, almeno sui redditi delle persone. La Flat Tax, anche in una versione “italiana” a due aliquote, rappresenta certamente una strada utile ma soprattutto percorribile, come è dimostrato dal nostro studio.

* Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Flat Tax sogno possibile

Flat Tax sogno possibile

di Gianni Zorzi* – Panorama

Il tema del fisco è tornato di grande attualità. Non solo per gli annunci di Matteo Renzi, che promette di rivoluzionare le tasse partendo dall’abolizione delle imposte sulla prima casa. Ma anche perché sono ricomparse nel dibattito politico italiano alcune proposte sulla possibile introduzione di una «flat tax» sui redditi personali. Questo sistema di tassazione, già attivo in una quarantina di Paesi (e diffuso soprattutto nell’Europa dell’Est), consisterebbe nell’applicazione di un’aliquota unica sui redditi e condurrebbe alla rottamazione del complesso di aliquote marginali, deduzioni e detrazioni che caratterizzano il calcolo dell’Irpef odierna. Gli obiettivi principali dichiarati dai sostenitori della flat tax sono almeno tre: a) semplificare il calcolo delle imposte a beneficio del contribuente; b) ridurre la pressione fiscale e aumentare il reddito disponibile come incentivo agli investimenti e alla crescita; c) favorire il riemergere di redditi nascosti all’erario garantendo una maggiore equità fiscale. La flat tax nella sua accezione più pura nasce come tassa proporzionale poiché colpisce il reddito con la stessa intensità dal primo all’ultimo centesimo dichiarato.

In effetti, abbandonare ogni tipo di deduzione e detrazione e fissare un’aliquota unica del 19 per cento sarebbe sufficiente in Italia a garantire lo stesso gettito fiscale che attualmente incassa lo Stato sull’Irpef. Ogni punto di aliquota inferiore a questa metterebbe invece a repentaglio circa 8,1 miliardi di gettito: a meno di confinarne drasticamente la portata, una flat tax pura del 15 per cento potrebbe costare all’erario fino a 32,5 miliardi, e del 10 per cento fino a 73,2 miliardi. Il 19 per cento equivale infatti al dato medio, arrotondato per eccesso, delle imposte nette (153,7 miliardi di euro inclusa la cedolare secca) che provengono dal reddito personale complessivo dichiarato dagli italiani (810 miliardi nel 2014). L’Irpef come la conosciamo è però un’imposta fortemente progressiva e mentre sotto i 10mila euro di reddito i contribuenti mediamente versano oggi il 2,8 per cento, trai 10mila e i 20mila sono colpiti per oltre l’11,1 per cento, e nella fascia tra 20 e 29mila euro di reddito pagano in media il 16,4 per cento. Queste categorie risulterebbero evidentemente svantaggiate da un passaggio all’aliquota proporzionale. Ben diverso il discorso per chi oggi ad esempio guadagna 50mila euro (con un’imposta effettiva superiore al 25 per cento), 80 mila euro (oltre il 30 per cento di imposta netta) oppure più di 300mila euro (con un’imposizione media del 39,48 per cento). E si pensi che già dai 28mila euro di reddito, l’attuale Irpef impone che ogni euro di reddito addizionale dichiarato costi tra i 38 e i 43 centesimi, senza contare le addizionali locali che pesano in media per un altro 2,1 per cento.

Per queste categorie l’incentivo all’evasione è dunque oggi molto elevato, e potrebbe ridursi notevolmente proprio con l’adozione della flat tax. Nel contempo, però, appare irrinunciabile la garanzia di una esenzione sui primi redditi, che eviti almeno alle fasce più deboli di farsi carico  della riduzione di gettito operata su quelli più elevati. Nella pratica esistono versioni progressive o marginali della flat tax che colpiscono solamente la parte di reddito che supera la soglia di esenzione, a sua volta definita come «no-tax area». Aldilà dei tecnicismi, il nostro Paese può realisticamente sostenere il passaggio a questo sistema? E in caso di risposta positiva, quale combinazione di aliquote e deduzioni fisse può essere stabilita al fine di contenere entro una determinata soglia i rischi di minori introiti per l’erario? Ad esempio, secondo le elaborazioni di ImpresaLavoro, con una no-tax area fissa da tremila euro a contribuente e con un’aliquota del 15 per cento il disavanzo complessivo potrebbe superare i 55 miliardi.

La parità di gettito si raggiungerebbe con certezza, a fronte di tremila euro di deduzione per contribuente, solo con un’aliquota del 22 per cento, mentre non si potrebbe andare sotto il 24 per cento se i tremila euro fossero estesi anche ai familiari a carico. Diversamente, bisognerebbe sperare in una massiccia emersione del «nero»: agli occhi del fisco dovrebbero però comparire, anche nella migliore delle ipotesi, nuovi redditi per almeno 413 miliardi. Questo obiettivo appare quantomai ambizioso, dal momento che corrisponderebbe a un incremento di oltre il 50 per cento dei redditi attualmente portati in dichiarazione. È chiaro quindi che una grossa fetta delle risorse andrebbe necessariamente ricercata altrove, ed in particolare nella riduzione della spesa pubblica che di per sé risulta, come si sa, sempre incerta e difficoltosa. C’è poi il problema delle fasce deboli, per le quali le deduzioni di tremila euro non sarebbero sufficienti a scongiurare l’aggravio fiscale: sotto i 10mila euro potremmo assistere, bene che vada, addirittura a un raddoppio delle imposte, mentre tra i 10mila e i 20mila il gettito rimarrebbe nella media invariato. Diversi tentativi di declinare il binomio aliquota unica-deduzione fissa possono portare a soluzioni meno costose per i redditi più bassi. Aumentare la no tax area a seimila euro oppure a ottomila euro per contribuente determinerebbe però la necessità di portare l’aliquota unica rispettivamente al 26 oppure al 29 per cento al fine di garantire la stabilità dei conti pubblici. Se la deduzione arrivasse a 13mila euro, una flat tax al 30 per cento potrebbe costare al fisco ben 35 miliardi, e ogni ulteriore punto di riduzione altri 3,9.

Secondo le nostre elaborazioni, almeno in un primo momento garantire tutti gli obiettivi della flat tax con un’aliquota unica e relativamente bassa potrebbe essere in effetti poco realistico. Abbassare le deduzioni danneggerebbe i redditi più modesti mentre incrementare l’aliquota svilirebbe lo shock fiscale desiderato; qualunque intervento nelle direzioni opposte, invece, potrebbe mettere in tensione i conti dello Stato. Il vero nodo nel breve periodo è soprattutto l’incertezza sul gettito concretamente recuperabile dalla riemersione dei redditi nascosti. Tale incertezza però potrebbe essere testata, per esempio, con una prima riforma meno ambiziosa e audace di quelle sinora proposte: se l’esperimento andasse a buon fine e le dichiarazioni dei redditi potessero confermarlo, in un secondo momento il taglio delle tasse potrebbe essere ben più deciso e corposo. Un esempio plausibile, secondo i nostri numeri, potrebbe essere quello di una no tax area di ottomila euro con una flat tax (impropria) a due stadi: per esempio del 20 per cento fino a 29mila euro di reddito, e del 27 per cento oltre i 29mila euro. Non si tratterebbe dunque di una imposta realmente «piatta» ma porterebbe con sé molti dei benefici attesi dai sostenitori dell’aliquota unica.

Con questa soluzione le tasse calerebbero in media per tutti i livelli di reddito, anche sui più bassi, mentre il calcolo delle tasse risulterebbe notevolmente semplificato con l’eliminazione di tutto l’attuale sistema di deduzioni e detrazioni e la riduzione a due sole aliquote. Nel contempo, il possibile disavanzo fiscale che ne conseguirebbe (che stimiamo prudenzialmente in 21,4 miliardi) sarebbe interamente recuperabile con l’emersione di 130 miliardi di euro di redditi non dichiarati: obiettivo che corrisponde al più 16 per cento rispetto alle attuali dichiarazioni e che sarebbe comunque favorito da un abbattimento consistente del prelievo soprattutto sui redditi medio-alti. Il tentativo cosi delineato potrebbe estendersi a una revisione e semplificazione delle addizionali locali Irpef, oltre che al reddito d’impresa (a cui potrebbe accompagnarsi finalmente l’abolizione dell’Irap, come propone Renzi per il 2017) e ad altre forme di prelievo come quello sui redditi finanziari, per arrivare sino all’Iva. In tutti i casi, con la flat tax il contribuente potrebbe finalmente ritrovarsi un fisco più semplice e trasparente, oltre che meno vorace e più equo.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro

 

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Renzi fa ponti d’oro ai profughi e noi scappiamo dal Belpaese

Renzi fa ponti d’oro ai profughi e noi scappiamo dal Belpaese

di Massimiliano Lenzi – Il Tempo

Siamo tornati ad essere un popolo di emigranti, di gente che fa la valigia e se ne va in cerca di fortuna all’estero, altro che gli sbarchi in Sicilia dal Nord Africa e la retorica dell’accoglienza a prescindere, per aiutare chi sta peggio di noi, anche se a gran parte delle nazioni europee (Austria, Ungheria, Inghilterra e Danimarca) solo a sentir parlare di quote di profughi da accogliere viene l’orticaria e non ne vogliono sapere. La crisi economica, in questi anni, ha fiaccato la resistenza e le speranze di futuro di una parte consistente delle famiglie italiane, portando quasi 600mila nostri connazionali, dal 2008 ad oggi, ad andarsene via dal Belpaese in cerca di lavoro e di una vita migliore.

I numeri sugli italiani che tornano, come nella scorsa metà del secolo scorso, li ha raccolti (su elaborazione dei dati Eurostat) una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2008 al 2013 – si legge – gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni». Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Si tratta di numeri importanti che dovrebbero interrogare la politica, a cominciare da Govrno Renzi, troppo impegnata a far della facile retorica sui doveri dell’accoglienza che avrebbero gli italiani verso i migranti che sbarcano dall’Africa, per ricordarsi invece degli italiani che se ne vanno dall’Italia. Volendo calcolare un numero annuale, vien fuori che in questi sei anni se ne sono andati via dal nostro Paese 92.455 italiani all’anno, in pratica la popolazione di una città media italiana.

Dove vanno i nostri connazionali a cercar fortuna? Secondo i dati della ricerca, in questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Si ratta insomma di Paei europei che non saranno il paradiso ma offrono, per chi se ne va, maggiori opportunità di farcela (con, ovviamente, tutte le difficoltà che essere fuori dal proprio Paese comporta) e un sistema, a cominciare da quello fiscale, più semplice del nostro. La graduatoria dei Paesi di destinazione, poi, cambia se guardiamo ai più giovani, di età compresa tra i 15 e 34 anni: per loro la meta preferita è il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).

Altri Paesi di destinazione dei nostri emigranti sono poi il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani). Emigrare dall’Italia in Albania, una via della speranza che sarebbe stata impensabile fino a pochi anni fa quando eravamo noi il Paese sognato dagli albanesi. Furi dall’Europa la parte del leone la fanno gli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013.

«I nostri emigranti – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani». Maggiore riconoscimento del merito, migliore formazione e più facilità, se si ha talento, di farcela. C’era una volta, in Italia.

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Presentazione “E io Pago” a Cordenons (PN)

Presentazione “E io Pago” a Cordenons (PN)

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“E io pago”. Il manifesto anti tasse realizzato dal CentroStudi Impresa lavoro sarà presentato mercoledì 22 luglio alle 19 nella sala Appi del Centro Culturale Aldo Moro a Cordenonds. La presentazione vedrà gli interventi di Simone Bressan, Direttore del CentroStudi, Massimo Blasoni, imprenditore e Presidente del CentroStudi e Davide Giacalone, editorialista e scrittore. A moderare l’incontro Renzo Francesconi, giornalista e primo cittadino di Spilimbergo
Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

ANALISI
Il perdurare della crisi economica costringe un numero crescente di nostri connazionali a trasferirsi stabilmente oltre confine alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal 2008 al 2013 gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni. Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
TABELLA IMMIGRAZIONE
In questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Fra i giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni la meta preferita è diventata invece il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede in questa classifica la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).
Nello stesso periodo di tempo molti altri nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013. Sempre dal 2008 al 2013, altre mete di destinazione dei nostri emigrati sono state nell’ordine il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani).
Tabella emigrazioneper paese
[clicca per ingrandire]
“I nostri emigranti – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani”.

 

 

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico italiano è cresciuto a velocità doppia rispetto al periodo in cui l’inquilino di Palazzo Chigi era Enrico Letta. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.
Durante i primi 15 mesi di attività dell’attuale governo, infatti, il debito pubblico ha registrato un incremento in valore assoluto di 98,76 miliardi di euro – passando dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015 – con un aumento medio mensile di 6,58 miliardi di euro.
Durante i 10 mesi di attività del governo Letta, il debito pubblico ha invece registrato un incremento in valore assoluto di 31,38 miliardi di euro – passando dai 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014 – con un aumento medio mensile di 3,14 miliardi di euro. Un ritmo di crescita più che dimezzato rispetto a quello fin qui registrato durante il governo di Renzi.

 

LEtta Renzi

Spesa pubblica: l’Italia si metta a dieta – Editoriale di Massimo Blasoni

Spesa pubblica: l’Italia si metta a dieta – Editoriale di Massimo Blasoni

di Massimo Blasoni – Metro

Presentando la sua prima Finanziaria non di coalizione, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha annunciato un significativo taglio alla spesa pubblica (pari a 12 miliardi di sterline per la fine della decade, equivalenti a 16,7 miliardi di euro), compensato in parte da un aumento del salario minimo dei lavoratori. Il messaggio del governo conservatore di Sua Maestà sembra chiaro: d’ora in poi lavoro e sviluppo saranno perseguite in Gran Bretagna non più foraggiando la spesa pubblica improduttiva e le aziende dello Stato ma al contrario favorendo l’incremento della produttività delle aziende private che decidono di investire e misurarsi con una maggiore concorrenza nel mercato.
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