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Enti Pubblici e produttività privata

Enti Pubblici e produttività privata

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Nel nostro Paese gli enti pubblici proliferano e non di rado prendono le sembianze di una gramigna che soffoca il bilancio dello Stato. Per intenderci, tra questi si annovera ancora (vai a capire perché) anche l’Unione Italiana Tirassegno… Una qualche riflessione meritano però anche altre istituzioni, le cui funzioni appaiono spesso ridondanti e costose. È il caso dell’Automobile Club Italiano, che dal 2012 riveste una duplice veste: da un lato è un ente pubblico non economico senza scopo di lucro a base federativa (in relazione alla gestione del pubblico registro automobilistico e all’acquisizione dei relativi contributi); dall’altro è una federazione sportiva automobilistica privata riconosciuta a livello internazionale. L’Aci ha 106 sedi provinciali, 13 direzioni regionali e 3.500 dipendenti a libro paga – in esubero in molte sedi provinciali – che costano oltre 158 milioni di euro l’anno. Per tenere aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico (PRA), che contiene le informazioni relative alle proprietà dei veicoli in circolazione, riceve ogni anno dagli automobilisti italiani compensi per 190 milioni di euro. Peccato che, attraverso la Motorizzazione Civile, il Ministero dei Trasporti gestisca in contemporanea l’Archivio Nazionale dei Veicoli (ANV), che registra i dati dell’omologazione fino alla cessazione della circolazione.

A noi pare una ragione più che sufficiente perché il Governo si decida finalmente a predisporre un’unica Banca dati nazionale per la circolazione e la proprietà dei mezzi automobilistici, come peraltro correttamente dispone la legge di riforma della Pubblica Amministrazione. Non si vede però cosa sostanzialmente potrebbe cambiare se tutti i dipendenti Aci dovessero essere travasati in una nuova agenzia del Ministero. I veri e sostanziali incrementi di produttività e diminuzione dei costi si potrebbero realizzare soltanto con l’applicazione di un classico principio liberale: mantenere pubblica una funzione (in questo caso la tenuta di un registro dei veicoli) ma affidarne la gestione operativa a operatori privati. Gli automobilisti italiani beneficerebbero così di significativi risparmi per la tenuta del PRA e la riscossione dei tributi grazie a società in concorrenza tra loro, che impiegano razionalmente il proprio personale e si sfidano sul terreno dell’innovazione tecnologica degli strumenti informatici.

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

“In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA” è quanto ha dichiarato Giuseppe Pennisi sul problema della formazione dei nuovi dirigenti pubblici. Ci ha concesso una piacevole intervista.
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Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mercato del lavoro: è già successo in passato (si pensi alla Rivoluzione industriale) ma mai con questa rapidità.

Il sistema scolastico appare oggi inadatto ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se stiamo parlando di qualcosa che ancora nemmeno esiste dobbiamo anche avere l’umiltà di ammettere che non serve immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Dobbiamo invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui convivere sempre.

Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica sa già che sta incamerando informazioni che probabilmente saranno ormai superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico così come per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. I neolaureati o neodiplomati in materie informatiche o statistiche hanno iniziato la loro formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazione per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199 mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica.

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

di Massimo Blasoni – Metro

Puntuale come ogni anno, ecco irrompere il dibattito sulla Legge di Stabilità. Il premier e il ministro dell’Economia, dopo averne inviato in sede europea una sintesi molto succinta, hanno illustrato i suoi principali contenuti sotto forma di slide dalla grafica accattivante. A quel punto hanno iniziato a rincorrersi le dichiarazioni di deputati e senatori, che a seconda della loro collocazione politica ne elogiano o criticano l’impostazione. Solo dopo una settimana il testo è approdato finalmente in Parlamento e al solito verrà emendato in maniera significativa durante il suo iter di approvazione. Col risultato che i cittadini si ritroveranno con un provvedimento assai diverso da quello presentato.

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La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Che la pacchia fosse finita molti lo sapevano o l’hanno capito leggendo i loro estratti conto, ma che un investimento in Bot o Btp potesse comportare una perdita non tutti l’hanno compreso pienamente. A ricordarlo ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro elaborando i dati delle ultime aste e confrontandoli con i precedenti relativi al triennio 2012-2014. Il combinato disposto del prelievo fiscale sui rendimenti e l’imposta di bollo comportano risultati complessivamente negativi per i risparmiatori. Il vero dramma è un altro: non esiste nessun limite alla tassazione di Bot e Btp anche in caso di rendimento negativo.
I dati sono impietosi e preoccupanti per le famiglie italiane che, secondo i dati ufficiali di Bankitalia relativi a fine 2013, hanno investito 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale) in titoli di Stato. Ma, soprattutto, è una patata bollente per il premier Matteo Renzi e per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ancora non sono intervenuti sulla materia, sebbene siano ampiamente consci del tradizionale «affetto» dell’italiano medio verso il solido Btp.
Per spiegare l’effetto perverso della tassazione conviene partire dalla fine, cioè dagli effetti che i bassi rendimenti (determinati sia dal taglio dei tassi della Bce che dal programma di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia lanciato da Mario Draghi) e le imposte hanno prodotto sui buoni del Tesoro. Coloro che avessero acquistato 20mila euro di Bot semestrali all’asta dell’altroieri hanno lasciato sul terreno 25 euro e 60 centesimi. Di questi, 5 euro e 60 centesimi sono legati al fatto che i Bot hanno un rendimento negativo dello 0,055 per cento. Il calo dei tassi fa sì che bisogna pagare lo Stato perché custodisca i risparmi per 6 mesi anziché ricevere indietro del denaro a titolo di interesse sul prestito come accadeva un tempo. Gli altri 20 euro sono relativi all’imposta di bollo che dal 2014 è salita allo 0,2%, una mini-patrimoniale.
Questo caso particolare esclude altri due costi generalmente a carico dell’investitore in titoli di stato. Il primo è rappresentato dalle commissioni bancarie per l’acquisto dei titoli in asta (cioè quando si dà il mandato alla banca, ndr ), che tuttavia sono ridottissime o nulle se il rendimento è vicino allo zero o negativo. A questo si aggiunge il dossier titoli che è di massimi 10 euro semestrali. Se Bot e Btp offrono una cedola, lo Stato preleva il 12,5% (su azioni, fondi, altre obbligazioni e conti di deposito è del 26%) e se lo prende anche se vengono ceduti prima della scadenza conseguendo una plusvalenza.
L’analisi del Centro studi ImpresaLavoro mostra anche che in asta i Bot semestrali e annuali, nonché i Ctz, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. I Btp quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti, L’incidenza effettiva delle imposte (interessi + bollo) ha toccato, tuttavia, il 48,2% per i Btp a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i Btp a 10 anni offerti nel marzo 2015. La situazione non migliora per chi volesse comperare i titoli di Stato sul mercato telematico. I prezzi sono tutti superiori a quelli d’asta, per cui la perdita alla scadenza è già assicurata. È, tuttavia, possibile usare la minusvalenza a compensazione di futuri guadagni. Se il governo voleva spingere gli italiani a comperare azioni, ci è riuscito benissimo.
Gli stranieri costano due miliardi l’anno

Gli stranieri costano due miliardi l’anno

di Andrea Morigi – Libero

Nel 2015 l’emergenza migranti potrebbe costare all’Italia 2,1 miliardi di euro. Cifra che dovrebbe salire ad almeno 2,6 miliardi il prossimo anno. Lo rivela un’indagine pubblicata da Panorama sul numero in edicola e realizzata del centro studi lmpresaLavoro, che ha cercato di calcolare in modo analitico, voce per voce, ogni singola spesa che riguarda il fenomeno immigrazione: nonostante l’emergenza coinvolga 300mila persone sbarcate in due anni e quasi 100mila migranti ospitati nei centri di accoglienza italiani, non è stata ancora istituita una contabilità analitica dei costi sostenuti.
La più importante voce di costo è quella dell’accoglienza in senso stretto, cioè il vitto e alloggio, a cui va aggiunto il sussidio quotidiano che si somma alle spese di mantenimento, dei soggetti per cui si è provveduto allidentificazione e all’inserimento nelle liste di coloro che hanno richiesto asilo: un importo di circa 643 milioni per l’anno scorso, destinato a diventare di quasi 1,3 miliardi a fine 2015. Al secondo posto le spese militari, che si aggirano sui 400 milioni. Al terzo, le spese sanitarie che nel 2015 risulterebbero pari a quasi 290 milioni di euro, in aumento di circa 20 milioni rispetto al 2014 e con un potenziale aggravio di altri 12 milioni per il 2016.
Potrebbe sembrare un bilancio normale o almeno proporzionato al numero degli sbarchi, se in quelle cifre miliardarie non fosse compreso anche un enorme spreco di risorse. Per risparmiare, lo Stato potrebbe intervenire sui tempi per l’esame delle domande di asilo, che si sono notevolmente dilatati. Benché le commissioni territoriali chiamate a occuparsene siano raddoppiate, passando da 20 a 40 rispetto al periodo precedente l’emergenza, le richieste sono quintuplicate e talvolta decuplicate rispetto al passato, a seconda degli anni. E non sempre vi è piena collaborazione da parte dei Comuni, chiamati a integrare le commissioni con loro rappresentanti.
Da qui i ritardi, aggravati dalle inefficienze della macchina amministrativa. Le ricadute sono gravi, non solo in termini finanziari, ma anche di decoro delle persone e di ordine pubblico. Chi presenta domanda di asilo e poi viene lasciato per mesi a trascorrere le sue giornate nell’ozio, in attesa della decisione della Commissione, può più facilmente essere reclutato da gruppi terroristici presenti in Italia o da gruppi criminali. Infine, manca una lista dei «Paesi sicuri», che non vanno ritenuti luoghi di persecuzione o fonte di protezione umanitaria. Disporne, consentirebbe di escludere a priori le richieste di chi proviene da quegli Stati. Senza quell’elenco, invece, le commissioni sono costrette a istruire le domande, perdendo tempo prezioso che potrebbe essere impiegato a favore dei veri rifugiati. Se la metà degli importi dispersi fosse investita per costituire nuove commissioni, i tempi si ridurrebbero e i benefici riguarderebbero tutti, incluse le casse dello Stato. E comunque, in attesa di far gli hot­spot, il lavoro delle commissioni dovrà essere accelerato. Se si vogliono ricollocare i profughi nel resto del territorio comunitario, bisogna identificarli al più presto.

20151023Libero

Jobs Act, le virtù e i molti limiti

Jobs Act, le virtù e i molti limiti

di Massimo Blasoni – Metro

Anche grazie al Jobs Act, nell’ultimo anno l’efficienza nel nostro mercato del lavoro ha guadagnato 10 posizioni a livello internazionale. Attenti però a festeggiare. Nell’ultima classifica pubblicata dal World Economic Forum restiamo ancora una volta ultimi in Europa e ci collochiamo al 126esimo posto su 140 Stati censiti nel mondo: subito dopo il Marocco, El Salvador e l’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia.

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Emergenza migranti: una potenziale bomba per i conti pubblici

Emergenza migranti: una potenziale bomba per i conti pubblici

di Massimo Blasoni – Panorama

Il nostro Paese sconta la scarsissima trasparenza sugli ingenti costi pubblici sostenuti in questi anni per la gestione degli sbarchi così come sui contributi economici che a nostro favore potrebbero essere stanziati in sede comunitaria. Emerge con chiarezza che i costi stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri. Senza un’accelerazione su questo fronte e una politica europea comune di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici. L’Italia non può più essere lasciata sola di fronte a questo dramma epocale.

Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

di Gianni Zorzi – Panorama

Alcune stime recenti hanno tentato di catturare il costo complessivo a carico dei contribuenti della gestione degli sbarchi di profughi e clandestini in Italia. In assenza di una contabilità precisa, le cifre che emergono sotto diverse ipotesi sono elevate ma del tutto realistiche. Uno studio di ImpresaLavoro ha cercato un approccio analitico provando a stimare, voce per voce, quanto costa l’emergenza migranti in Italia.
Primo dato: la scarsissima trasparenza. Nonostante un fenomeno che coinvolge 300mila persone sbarcate in due anni e quasi 100mila migranti ospitati nei nostri centri di accoglienza, non è stata ancora istituita una contabilità analitica dei costi sostenuti. In parte tale aspetto si deve alla distribuzione degli oneri tra i più diversi centri di costo, a livello locale oppure nazionale, che coinvolgono anche dipartimenti diversi come quello della sanità o della difesa. Per il resto, la mancanza di dati puntuali può giustificarsi nella condizione di emergenza, anche se tale ormai perdura da almeno due anni: gli arrivi dei migranti sulle coste italiane, secondo i dati del Ministero, sono passati dai 13mila del 2012 ai 43mila del 2013, per arrivare agli oltre 170mila del 2014. Al termine del 2015 il numero di sbarchi dovrebbe confermarsi di poco superiore a quello dell’anno scorso, e comunque difficilmente supererà la cifra di 175mila. L’assunto è confermato dai numeri più aggiornati forniti dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione in una recente audizione: i 137mila sbarchi registrati sinora corrispondono a quanto rilevato per l’anno scorso nello stesso periodo.
La più importante voce di costo è quella dell’accoglienza in senso stretto, quindi il vitto e alloggio dei soggetti per cui si è provveduto all’identificazione e all’inserimento nelle liste di coloro che hanno richiesto asilo: un importo di circa 643 milioni per l’anno scorso, destinato a diventare di quasi 1,3 miliardi a fine 2015. Questi costi sono in notevole aumento poiché un numero di sbarchi elevato come quello registrato negli ultimi due anni conduce ad un maggiore affollamento delle strutture. Le procedure per l’accoglienza dei migranti non sono così rapide da controbilanciare l’afflusso più corposo di profughi, e le presenze nei centri tendono di conseguenza ad aumentare. L’ondata del 2014 ha quasi quadruplicato, tra gennaio a dicembre, le presenze dei migranti che sono passate da 17mila a oltre 65mila. Considerando anche i dati ministeriali diffusi a più riprese nel 2015, stimiamo in oltre 109mila presenze il dato tendenziale prevedibile per dicembre e in circa 87mila quello medio dell’anno. Tali numeri si riferiscono a tutto il sistema delle strutture di accoglienza: sia quelle governative come la rete Sprar e i Cara, sia quelle in convenzione come i Cas. Per il 2016 è ancora molto presto azzardare delle previsioni ma se il trend non si inverte e gli afflussi proseguono agli stessi ritmi, c’è il rischio che la media delle presenze superi quota 120mila, con un possibile aggravio di spesa pari a circa 480 milioni di euro.
Abbiamo stimato infatti che il costo medio di questi centri sia pari a 40 euro al giorno pro capite, considerando un importo leggermente superiore a quello solitamente comunicata dal Ministero (35 euro) ma vicino al riferimento preso da altre stime come quella della Fondazione Leone Moressa per l’accoglienza in Veneto, e che appare comunque prudenziale tenendo presente una serie di aspetti. Bisogna ricordare ad esempio che i costi delle strutture alberghiere o altre strutture private e convenzionate esterne al sistema pubblico sono per forza di cose superiori, ed è proprio a causa della saturazione della rete Sprar che su queste strutture si concentra la gestione delle emergenze. Inoltre, il costo sanitario e amministrativo per i minori non accompagnati risulta sensibilmente più elevato. Ma ci sono anche gli aspetti riguardanti i possibili appalti gonfiati sotto inchiesta, che potrebbero aver contribuito ad un conto ancor più salato a danno dei contribuenti.
Di per sé gli sbarchi generano anche dei costi per la primissima assistenza (trasporti, noleggio strutture presso i porti, acquisto di coperte, indumenti, scarpe etc.) che potrebbero essere stimati in 168 euro a sbarco (circa 29 milioni all’anno in totale), sulla base dei dati forniti ad esempio dalla Prefettura di Siracusa per la gestione dell’emergenza 2014.

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A questi costi occorre aggiungere le spese sanitarie. Il conto preciso, in questo caso, diventa ancor più difficile. Secondo lo studio di ImpresaLavoro, il costo complessivo per il 2015 risulterebbe pari a quasi 290 milioni di euro, in aumento di circa 20 milioni rispetto al 2014 e con un potenziale aggravio di altri 12 milioni per il 2016. Tali costi non riguardano solamente gli ospiti dei centri di accoglienza provenienti dagli sbarchi (che stimiamo incidere quest’anno per non più di 35 milioni di euro), ma anche tutte le persone entrate clandestinamente in Italia e che stanno per ragioni diverse sul territorio del nostro stato. Non è semplice catturare i numeri di tale fenomeno, per il quale esistono ipotesi diverse: l’OCSE li ha stimati nel 2010 per una cifra che poteva arrivare sino a 750mila, la Caritas si spingeva fino ad 1 milione. Come riferimento per lo studio, si è scelta la stima di 651mila operata dalla Commissione Europea per il progetto “CLANDESTINO”. Il costo pro capite dei trattamenti sanitari a loro favore è altresì caratterizzato dall’assenza di sistemicità nella sua rilevazione. La nostra stima si è allineata ai report locali più autorevoli, seppur datati, che fanno propendere per un costo medio di 391 euro annui (Azienda Sanitaria di Milano), e comunque quantificabile nello 0,3% della spesa sanitaria complessiva (Agenzia Regionale Sanitaria Marche).
Oltre a questo si devono conteggiare le spese di giustizia. I richiedenti asilo sono una piccola parte del totale dei soggetti che sbarcano nel nostro paese. Tuttavia le richieste di asilo, al pari di qualsiasi atto amministrativo, richiedono un’istruttoria da parte delle autorità competenti e, soprattutto, possono essere impugnate. Secondo i dati riportati da Domenico Manzione, le domande già esaminate nel 2015 sono state 61mila, con un incremento del 30% rispetto all’anno scorso. È ipotizzabile, sulla scorta delle statistiche fornite per il passato dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo, che a fine anno gli esiti di diniego superino le 35mila unità, con la concreta possibilità di 23mila ricorsi attivati dai migranti. Ciò condurrebbe secondo le nostre stime a un ulteriore impatto di 59 milioni di euro, dovuti per le spese amministrative relative alle singole pratiche nonché quelli per il gratuito patrocinio.
Vi sono poi tutta una serie di costi correlati che ImpresaLavoro ha raccolto in una voce residuale di un importo pari al 5% dei costi generali per l’accoglienza, bassato sul valore di compartecipazione che i comuni attraverso l’Anci hanno stabilito per la messa in funzione del sistema Sprar/Cara. In questa voce s’intendono compresi costi come quelli sostenuti dagli enti locali per la sistemazione delle aree adibite all’accoglienza, la gestione degli arrivi dei profughi nei comuni, i costi di sicurezza, il costo della popolazione carceraria immigrata irregolare e quello dei relativi rimpatri. Nei primi otto mesi dell’anno sono stati allontanati dall’Italia quasi 10mila immigrati, respinti alla frontiera o espulsi e che si sono organizzati oltre mille voli charter. A questi vanno aggiunti i 486 arresti di scafisti. Un lavoro di questo tipo non interessa solo le coste siciliane ma anche i confini a nord con il fenomeno dei passeur e più in generale i molti controlli tra gli stranieri che si devono fare sul territorio.
Ad essi devono ancora sommarsi i costi militari, determinabili in almeno 400 milioni, che comprendono i costi per il pattugliamento delle coste, il rafforzamento delle frontiere, le missioni navali e aeree, i contributi italiani alle missioni Frontex e EuroForNavMed.
Il conto complessivo per il 2015 dei costi dell’emergenza migranti dovrebbe arrivare dunque, secondo lo studio di ImpresaLavoro, a 2,1 miliardi di euro, in aumento rispetto agli 1,4 miliardi spesi nel 2014. Per il 2016 invece, ipotizzando un numero di sbarchi paragonabile a quello registrato negli ultimi due anni, il costo potrebbe superare la cifra di 2,6 miliardi. La stima è per difetto: tutte le voci di costo sono state quantificate con cautela e nel complesso, del resto, non raggiungono la quota massima dello 0,2% del Pil (3,1 miliardi) comparsa nella nota di aggiornamento del Def 2015 pubblicata il mese scorso. Davanti a questo scenario, comunque, è chiaro che le somme promesse dall’Europa all’Italia per l’emergenza (circa 73 milioni di euro all’anno fino al 2020), non sembrano poi così elevate.

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Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Massimo Blasoni – Il Tempo

In Italia si spende poco per il collocamento, ma soprattutto si spende male. Le risorse destinate ai centri per l’impiego sono infatti lo 0,03% del nostro Pil. Numeri che ci fanno impallidire davanti a una media Ue dieci volte superiore (0,3%) e che rendono ancor meglio l’idea se tradotti in valori assoluti. L’investimento italiano in collocamento è infatti di circa 500 milioni di euro mentre quello spagnolo è di circa un miliardo, quello francese di 5.047 milioni, quello tedesco addirittura di 8.872 milioni. Con un impegno così modesto, i risultati ottenuti non possono che essere sconfortanti: solo il 3% della nostra forza lavoro occupata è intermediata dai centri per l’impiego, contro il 9,4% della media Ue, il 10,5% della Germania e il 13,2% della Svezia.

Quanto ai servizi privati di collocamento che affiancano la rete pubblica, riescono a impiegare solo lo 0,6% della forza lavoro nel Paese. La somma di due debolezze non può fare una forza e infatti, scorrendo l’ultimo rapporto Isfol sul tema, si scopre che l’80% dei disoccupati mostra più fiducia nelle cosiddette “reti informali” (raccomandazioni o segnalazioni di parenti e amici) e che il 70% preferisce di gran lunga rivolgersi direttamente alle imprese.

Non è solo una questione di “tracciabilità dei percorsi” (in un sistema formale posso monitorarti e meglio adattare le politiche pubbliche) ma di efficienza: gli uffici del personale delle nostre aziende sono sommersi da curricula che molto spesso non vengono letti e, per converso, hanno una notevole difficoltà a soddisfare le proprie specifiche richieste di personale. Risultato? Il difficile matching tra domanda e offerta fa sì che soggetti capaci finiscano occupati in ruoli in cui non possono esprimere al meglio le proprie potenzialità e le aziende si accontentano di profili inferiori per qualità a quelli di cui avrebbero bisogno per crescere.

Accade così che il nostro mercato del lavoro – la cui efficienza per la Banca mondiale è ultima in Europa e al 126esimo posto (su 140) a livello internazionale – finisca stritolato tra opposte contraddizioni: eccessivamente burocratico dal punto di vista normativo, troppo costoso dal lato economico, completamente disorganizzato e spontaneistico dal punto di vista del collocamento. L’esatto contrario di quel che servirebbe.

10.20 Il Tempo