C’è poco da twittare: il virus è l’austerity e una delle medicine si chiama tagliadebito
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
C’è poco da twittare: non ci sono gufi dietro i dati del secondo trimestre che confermano che l’Italia è ancora in recessione. Ci sono invece responsabilità politiche gravi, errori di strategia economica e l’incapacità di comprendere che le manovre economiche restrittive, affastellate senza sosta da tre anni a questa parte, non potevano altro che portare la nostra economia al coma. Né sono scusanti: il + 0,8% di Pil per quest’anno non è un obiettivo ereditato dal passato, dall’esecutivo Monti o da quello guidato da Enrico Letta. I dati del Def per il 2014 approvato appena quattro mesi fa portano la firma di Matteo Renzi e di Pier Paolo Padoan. Che ora il ministro dell’Economia, preso in contropiede, annunci che non ci saranno manovre correttive per l’anno in corso suona quasi scherno, visto che per la maggior parte dei padroni di casa c’è ancora la Tasi da pagare, tutta insieme: una tassa nuova di zecca il cui pagamento è stato rinviato a dicembre per tutti i Comuni che non hanno fatto in tempo a deliberare le aliquote e gli sgravi. La batosta, dissimulata dietro il rinvio tecnico, arriverà: l’ultimo trimestre dell’anno sarà il peggiore di tutti.
Il miglioramento del Pil nel 2013 è stato temporaneo, determinato dalla sospensione del pagamento dell’Imu sulla prima casa, un pegno elettorale pagato dal governo Letta al Pdl: ma quest’anno l’eccezione non c’è stata e i risultati si vedono. L’Imu o la Tasi sulle prime case non sono altro che un’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche: sono queste le tasse che hanno abbattuto strutturalmente i consumi delle famiglie. La legge di Stabilità 2015 comporterà una correzione di circa 20 miliardi perché alle spese che vegono finanziate annualmente, dalla cassa integrazione alle missioni militari all’estero, c’è da aggiungere la copertura per le promesse fatte dal premier in occasione delle elezioni europee: il bonus fiscale di 80 euro al mese costa 10 miliardi, di cui solo 3,5 sono già stati indviduati. Questa misura da sola vale mezzo punto di Pil.
L’entusiasmo dei neofiti è messo a dura prova dai numeri diffusi ieri. D’altra parte, dietro la sarabanda riformista si cela una buona dose di cinismo: ben sapendo che c’è poco da giostrare con il deficit, si è spostata la barra sulle riforme istituzionali dividendo il Paese tra chi vuole cambiare e chi resiste nel voler mantenere i privilegi. Ora la strada del governo è in salita: occorreva dare un segnale vero ai mercati abbattendo il debito, ma anche sulle privatizzazioni i ritardi si accavallano: le Poste rinviano la quotazione in borsa, mentre del buyback di azioni dell’Eni non si sa molto. La relazione al Parlamento del ministro Padoan sulla spending review è stata rinviata a data da destinarsi. Le vendite degli immobili da parte del Demanio sono difficoltose, come del resto sono vani i tentativi di qualsiasi cittadino che voglia vendere casa in fretta: non c’è più mercato per nessuno. Sono anni che vengono adottate misure fiscali demenziali che hanno massacrato il Paese senza risanare le finanze pubbliche: mentre il Pil è tornato indietro di 14 anni, il debito non è stato mai così alto.
Al Tesoro non si illudano: non ci sarà alcuna Troika che verrà a togliere le castagne dal fuoco, perché il solo annuncio di un intervento in Italia farebbe tornare l’euro vicino al collasso. Fmi, Ocse, Unione Europea e Bce, tutti insieme, hanno diretto l’orchestra che ha guidato le politiche fiscali. Ora tacciono perché dovrebbero ammettere di aver sbagliato tutto.