Il costo delle riforme mancate

Luca Ricolfi – La Stampa

La lezione è semplice. Renzi ha la testa dura, ma i numeri hanno la testa ancora più dura. Sbeffeggiata dal premier fino a pochi giorni fa, l’economia si sta riprendendo un’amara rivincita. L’Istat ha annunciato che l’Italia è di nuovo in recessione (altroché ripresa nel 2014!), lo spread ha ricominciato a salire, la fiducia nell’Italia è gravemente compromessa sia sui mercati finanziari sia nelle cancellerie europee. Dopo aver trattato con sufficienza chi considera importante qualche decimale in più o in meno, ora Renzi può toccare con mano che è vero l’esatto contrario: crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme.

Dal momento che è da gennaio, ossia da ancor prima che Renzi disarcionasse Letta, che insisto sull’imprudenza delle scelte di Renzi, oggi vorrei provare a lasciarlo in pace. Non è tempo di recriminazioni e di impietosi «io l’avevo detto». Quello su cui vorrei soffermarmi, semmai, è l’ambiente in cui Renzi e i suoi fedeli operano, dove per «ambiente» intendo il complesso di credenze, convinzioni, abiti mentali che finora gli hanno reso così facile procedere come uno schiacciasassi. Sono esse, a mio parere, le vere responsabili dell’incapacità dell’Italia di risollevarsi; sono esse il male che neutralizza (o «gattopardizza», direbbe Alan Friedman) ogni vero cambiamento; sono esse l’acqua in cui il pesce Renzi nuota. Di che cosa è fatta l’acqua in cui, come un banco di gagliardi tonnetti, si muovono i nuovi governanti?

Il primo ingrediente è la credenza che il cambiamento delle regole generali (legge elettorale, forma di governo, tipo di federalismo), un’attività in cui politici, giornalisti e diversi tipi di intellettuali si trovano tremendamente a proprio agio, sia più importante della bassa cucina delle politiche economico-sociali. Che bello discutere di bicameralismo, Senato elettivo o non elettivo, democrazia, rappresentanza, soglie, preferenze, sbarramenti e premi di maggioranza! Che barba la spending review di Cottarelli, le regole del mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le privatizzazioni, le pensioni! Qui c’è un’incredibile leggerezza e confusione, come se su una nave che affonda, con i passeggeri che si dibattono fra i flutti, le scialuppe di salvataggio che non bastano a recuperare tutti, il comandante stesse appassionatamente discutendo come sostituire la vecchia radio di bordo con un modernissimo, e sicuramente utilissimo in futuro, sistema di navigazione satellitare.

Il secondo ingrediente, spesso imputato a Tremonti ma evidentemente molto radicato nella mentalità del Paese, è l’idea che buona parte dei nostri guai economici vengano dall’esterno e che, di conseguenza, anche la nostra salvezza sia destinata a venire da fuori. È l’Europa che impone l’austerità, è l’euro che è sopravvalutato e frena le nostre esportazioni, è la congiuntura nell’eurozona che è in ritardo. Dunque è la Commissione europea che deve allentare il rigore, è Mario Draghi che deve indebolire l’euro, e quanto alla ripresa si tratta solo di aspettare. Con le parole del premier: «È un po’ come l’estate: non è che è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo ma arriva» (esercizio: provate a immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo 7 anni di crisi, una rassicurazione del genere l’avesse data Berlusconi). Questa visione vagamente fatalistica e attendista, che verosimilmente ha le sue radici nella storia d’Italia, con la sua lunga soggezione a invasori e popoli stranieri, è di per sé un potente fattore di sottovalutazione dell’urgenza e dell’impatto delle riforme economico-sociali. Se, almeno nel breve periodo, quasi tutto dipende da quel che succede nel mondo esterno, se il vero problema è l’Europa, beh allora perché tanta fretta sulle riforme economico-sociali? Meglio dare un segnale di cambiamento (ma i governanti preferiscono chiamarlo «svolta epocale») sul terreno delle regole, sul resto ci si annoierà più avanti. Il guaio è che questa diagnosi è difficilmente conciliabile con i dati. È vero che l’Europa cresce di meno di altre aree del mondo, ma il punto è che le differenze interne all’Europa, comprese quelle interne all’eurozona, sono enormi: la differenza fra i tassi di crescita dei Paesi-gazzella e quelli dei Paesi-lumaca è di 7-8 punti, l’Italia cresce meno della media degli altri Paesi, e la sua posizione in graduatoria è oggi esattamente quella di prima della crisi: solo 2 Paesi su 30 fanno peggio di noi.

C’è anche un terzo ingrediente, però. È il keynesismo di comodo che si impadronisce di chiunque, di destra o di sinistra, si trovi a dover governare il Paese. Che cos’è il keynesismo di comodo? È la convinzione che, nonostante lo stato drammatico dei nostri conti pubblici, la via maestra per far ripartire l’economia sia qualche forma di sostegno alla domanda di consumo, come gli 80 euro in busta paga o l’allentamento del patto di stabilità, non importa se al prezzo di aumentare il debito pubblico, ossia il fardello che lasceremo alle generazioni future. Che questa convinzione sia sostenuta, oltre che dagli interessi elettorali dei governanti, da più o meno sofisticate teorie economiche, poco toglie alla sua radicale mancanza di senso della realtà. Solo chi non ha la minima idea dei problemi di chi conduce un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere, possa dipendere da un aumento dello 0,2% o anche dello 0,5% della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa. Per questo mettere 10 miliardi sull’Irpef anziché sull’Irap è stata una mossa geniale sul piano elettorale, ma stolta sul piano economico.

E anche qui, non si creda che Renzi sia stato particolarmente innovativo: la stessa scelta, rinunciare a mettere tutte le risorse sull’Irap, fu fatta già da Prodi nel 2007, contro il parere del suo ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa. E’ una vecchia storia. Ai politici piace spostare risorse, ridistribuire da un gruppo sociale (nemico) all’altro (amico), perché in cuor loro sono convinti che l’ampiezza della torta da spartirsi in fondo non dipenda dalle loro scelte, mentre è vero il contrario: la politica ha fatto molto per soffocare l’economia, e molto potrebbe fare per cominciare a riparare il danno. Ma questo qualcosa si chiama riforme economico-sociali, a partire dalla dimenticata riforma del mercato del lavoro, spostata alle calende greche perché troppo scottante, o meglio troppo divisiva per il Pd. E’ sulle riforme difficili, sulle misure necessarie ma impopolari, che passa il confine fra spavalderia e coraggio, fra la retorica delle «svolte epocali» e la prosa delle scelte che contano.

 Ci sarebbe poi, se vogliamo dirla tutta, anche un ultimo ingrediente che fornisce il suo speciale sapore all’acqua delle non-riforme in cui i nostri governanti nuotano con tanta disinvolta naturalezza. Quell’ingrediente è la nostra facilità a passare da un modello al modello opposto, il nostro bisogno di affidarci a qualcuno, la nostra attrazione per ciò che appare vincente, la nostra perenne oscillazione fra indignazione e indifferenza, fra entusiasmo e apatia. Insomma, lo stato dei nostri media e della nostra opinione pubblica. Ma questo, ne convengo, è un altro discorso.