Sovranità senza sovrano
Davide Giacalone – Libero
Mario Draghi continua a ripetere che è impossibile sperare che la ripresa europea si basi solo sulle iniziative della Banca centrale. Che è necessario cedere sovranità per creare qualche cosa che somigli a un governo europeo. E ha ragione, tanto più che i fatti pongono davanti all’alternativa: cedere sovraninà per riforme e istituzioni condivise, o cederla perché travolti dalla propria inettitudine. Le alzate d’ingegno e le presunte fughe non ne restituirebbero neanche un grammo, semmai farebbero salire il conto da pagare.
La Bce può fare la sua parte, e la sta facendo, ma non può e non deve sostituirsi ai governi e alle istituzioni dell’Ue. Draghi ripete, giustamente, che la moneta unica chiede più integrazione, cosa che incontra una resistenza soprattutto francese. Taluni credono di sapere che l’euro nacque a freddo e dal nulla, invece ha alle spalle gli anni del Sistema monetario europeo e dei cambi (quello Sme cui si oppose il Pci, con le parole del non europeista Giorgio Napolitano, perché non voleva l’Europa indipendente e sovrana). Draghi, però, continua a non ricevere risposte convincenti. La Bce c’è stata e c’è. Quando lo sostengo c’è chi obietta: e che cosa ha fatto, per l’Italia? Molto: ha messo le banche in condizione d’acquistare titoli del debito pubblico e li ha a sua volta comprati, riducendo efficacemente il divario dei tassi d’interesse e l’affanno delle aste. Ora prova a pompare denaro destinato al credito, verso imprese e famiglie. Ha fatto molto, ma ha agito isolata. Ha invocato il coerente concorso di Ue, governi e parlamenti, ma questi fanno finta di non sentire.
Il governo italiano ha inviato alla Commissione una legge di stabilità fondata su dati irreali. Lo sa chi l’ha spedita e lo sa chi l’ha ricevuta. Allora perché la approvano, come raccontano tutti i giornali, anziché restituircela con sdegno? Intanto perché ne chiesero e ottennero delle correzioni, poi perché non l’hanno approvata, limitandosi a dire che i conti li faremo a marzo, quando non torneranno. Più in generale, però, non ce la tirano dietro perché i nostri numeri sono sì sballati, ma anche quelli degli altri. A cominciare da quelli della Commissione.
Il celebre piano Juncker ha finalmente preso corpo numerico, confermando i peggiori sospetti. 16 miliardi diventano 21 con i 5 della Banca europea degli investimenti; cosi creato, il Fondo europeo per gli investimenti strategici consentirà alla stessa Bei di fornire prestiti per il triplo del capitale, arrivando a una disponibilità di 63 miliardi (e già qui siamo fra gli atti di fede); dai 63 si passa a 315 grazie all’entusiasmo che vedrà moltiplicare tutto del quintuplo, con i capitali privati che vorranno partecipare alla festa (e qui si entra fra i misteri della fede, o negli empirei del raggiro). Se poi andate a leggere in cosa quei soldi dovrebbero essere investiti, trovate roba che o è profittevole in sé, quindi dovrebbe essere lasciata al mercato, o è spesa pubblica classica, che ammesso possa essere generatrice di profitto lo sarà solo dopo anni. La testa di questi politici funziona ancora immaginando spesa pubblica che sostiene i consumi, dimenticando che in questi anni di crisi il debito pubblico europeo è cresciuto in modo impressionante (il nostro, già enorme, meno di quello altrui). Quanto tempo ancora pensano che una zona ricca possa continuare a vivere al di sopra dei propri gia grandi mezzi?
L’azione di accompagnamento che la Bce reclama ha caratteristiche diverse. Servono riforme che sciolgano il blocco muscolare e celebrale di società che hanno preteso di abolire il rischio, così condannandosi alla paura del futuro. E servono tagli alla spesa pubblica corrente, compresi tagli al costo del debito (e gli unici visti vanno a merito della Bce), che consentano di far scendere la pressione fiscale. La Bce lavora per un cambio più favorevole, tassi bassissimi e inflazione più tonica. I governi dovrebbero lavorare per meno fisco e più produttività, non attendere i frutti dell’azione di Francoforte per ciucciarne i risultati e sprecarli come impareggiabilmente sanno fare.