Il convitato di pietra è la domanda interna

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

A guardare alle grandezze finanziarie, l’economia italiana non sembra messa male: la Borsa, malgrado gli inciampi delle ultime settimane, segna un +17% rispetto a un anno fa, i tassi dei titoli pubblici (vedi l’asta BoT di ieri) sono ai minimi storici, i tassi pagati da famiglie e imprese sono anch’essi più bassi di un anno fa… Ma quando si passa alle grandezze reali la musica cambia.

L’inflazione ha cambiato pelle ed è diventata deflazione: dieci città vedono il segno “meno” nella dinamica dei prezzi. Anche se parte della discesa dei prezzi viene da una “deflazione buona” (legata alla tecnologia – vedasi il -9% sui 12 mesi dei prezzi delle comunicazioni), non vi è dubbio che la parte maggiore è una “deflazione cattiva”, figlia della debolezza della domanda. E il resto dell’economia reale? Il calo del Pil fotografa un Paese che prende una polmonite quando il resto del mondo prende un raffreddore.

Come risolvere questa discrasia fra economia finanziaria ed economia reale? Prima di rispondere menzioniamo un’altra discrasia, anzi due. Primo, non tutti i dati recenti sono negativi: alla fine dello scorso trimestre la produzione industriale è risalita, e la disoccupazione è scesa. Secondo, e più importante: i dati “fisici” e quelli della fiducia danno due letture completamente diverse. Sia gli indici Pmi che le inchieste sulla fiducia (delle famiglie e delle imprese), sia le attese di produzione che i “superindici” anticipatori dell’Ocse danno l’immagine di un’Italia che avanza. Anche se alcune di queste buone notizie devono essere prese con le pinze (per esempio, il livello degli indici Ocse indica, per ragioni tecniche, che l’Italia farà meglio rispetto a un “prima” desolante e che non che fa meglio degli altri Paesi), non vi è dubbio che le due letture sono diverse. Insomma, i dati non rimano. Cosa c’è, allora, «sotto ‘l velame de li versi strani»?

A questa domanda si può dare una risposta tecnica e una politica. La risposta tecnica riposa sul fatto che troppe statistiche sono ancora basate su un’economia di “grano e acciaio” e non colgono appieno il divenire di un apparato produttivo che – proprio sotto la sferza della recessione – cambia pelle: cambia la composizione dei prodotti, che non è catturata da indici a pesi fissi, cambiano i segmenti di valore aggiunto e le quantità fisiche sono inadeguate a raffigurare colori e contorni di un’economia che cerca nuove strade.
La risposta politica guarda a una società che ha riposto troppe e messianiche speranze nel nuovo Governo. Le riforme istituzionali, come il superamento del bicameralismo perfetto, sono importanti, anche per l’economia. Ma non hanno effetti immediati e consumano capitale politico.

Altre riforme, come quelle della pubblica amministrazione, sono – era inevitabile – annunci che attendono la fase decisiva dell’applicazione. E il Jobs Act potrebbe – e non è detto – migliorare il mercato del lavoro se detto mercato ricevesse il carburante della domanda. È la (mancanza di) domanda il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Quando il Governo Renzi decise di destinare risorse a far ripartire l’economia, poteva agire sulla domanda (sgravi alle famiglie) o sull’offerta (sgravi alle imprese). L’investimento risponde al profitto netto atteso, e avrebbe potuto rispondere a sgravi su imposte e/o costo del lavoro; ma risponde anche e forse soprattutto alle prospettive di domanda, e in questo caso gli sgravi alle famiglie potevano aiutare.

Nella fattispecie, i famosi 80 euro non sembrano aver avuto molto effetto, anche se è presto per giudicare (sono arrivati a fine trimestre) e in ogni caso il giudizio dovrebbe prendere a paragone l’inconoscibile, cioè quel che sarebbe accaduto senza sgravio. Sulle prospettive della domanda pesa anche il futuro. Una piena adesione alle regole cieche del Fiscal Compact impartirebbe un altro duro colpo all’economia italiana. La strategia del Governo Renzi sembrava essere quella di affidarsi alla ripresa per validare a posteriori una politica di bilancio arrischiata, fondata su stime ottimistiche dei risparmi di spesa. E la ripresa non poteva che arrivare dal traino esterno, dato che l’economia italiana non può sollevarsi da sola. Questa scommessa era – ed è – l’unica possibile nell’immediato, e non è ancora persa. L’economia americana tira e la Cina non si ferma. Il punto interrogativo sta nel Paese motore dell’economia europea: una Germania che rallenta restringe sbocchi al nostro export. C’è solo da sperare che il rallentamento favorisca atteggiamenti meno sordi rispetto alle giuste richieste di flessibilità nelle regole di bilancio.

Ma l’economia non è fatta di solo export. La parte maggiore è la domanda interna, anche se l’export può fare da volano. E ci sono modi di favorire la domanda interna: le riforme a costo zero, da tempo proposte. In cima alle quali c’è l’allentamento della più pesante palla al piede che da troppi anni azzoppa l’economia: l’oppressione burocratica, l’incertezza e le lungaggini delle autorizzazioni, le frustranti litanie di ritardi e di veti… Nodi intricati che attendono ancora chi sappia porli in cima alla lista delle cose da fare.