Gli investimenti italiani all’estero

di Paolo Ermano

Una nuova invasione?
Negli ultimi anni, probabilmente a causa delle paure suscitate dalla crisi economica, gli organi d’informazione nazionali hanno più volte riportato notizie di aziende straniere che facevano “shopping”, questo è il termine comunemente utilizzato, nel nostro Paese, comprandosi imprese rilevanti del panorama economico italiano. L’effetto percepito dalla cittadinanza è stato quello di una sorta di colonizzazione economica: le imprese di paesi considerati fino all’altro giorno poveri, Cina o India, o di paesi troppo forti con cui confrontarsi, come la Germania, erano rappresentate come invasori, quasi a voler risvegliare l’atavica paura di un popolo che dalla fine dell’impero Romano ha troppe volte subito il dominio altrui.
I recenti casi, molto eclatanti, di Pirelli acquisita da China National Chemical Corporation e di ItalCementi venduta al gruppo tedesco Heidelberg Cement, hanno riacceso la polemica sul presunto colonialismo straniero verso le imprese italiane.
E’ il caso di sottolineare che l’immagine di un Paese colonizzato non solo non risulta veritiera, in quanto gli italiani sono, in questi termini, più colonizzatori che colonizzati, ma il fatto che aziende straniere investano nelle nostre imprese può anche essere un ottimo segnale per il sistema Paese.
L’Italia che compra
Se andiamo ad analizzare in prospettiva storica l’impatto degli IDE, gli investimenti diretti all’estero, scopriamo un’Italia più predatrice che preda. Gli IDE quantificano l’investimento di un’azienda con base nel Paese A verso un’azienda posta nel Paese B. Si possono identificare due tipologie di IDE: l’acquisizione di quote azionarie di un’impresa o un processo di acquisizione o fusione fra due imprese.
Come si può vedere dalla seguente figura , fin dagli anni ’90 il flusso in uscita dalle aziende italiane verso l’estero è sempre stato superiore al flusso in entrata: le imprese italiane investono le proprie risorse per acquisire il controllo, parziale o totale, di aziende straniere in misura maggiore di quanto accada per le imprese estere nel nostro paese.
Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %)

Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %). Fonte: Bankitalia

 

Dopo un allineamento nei primi anni 2000, la situazione è migliorata, dal punto di vista delle imprese italiane che fanno “shopping” all’estero, dal 2008, con l’inizio della crisi: mentre il flusso in entrata si stabilizzava rispetto al PIL (che ricordiamo è sceso dal 2008 al 2014), il flusso in uscita cresceva in termini di PIL del 10% circa. E’ interessante notare la composizione degli investimenti, sia in termini di settore, che di destinazione geografica, come emerge dalla tabella 1:
Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

 

In termini di stock di investimento, il peso del settore manifatturiero scende, dal 30% circa al 20%, per lasciare maggior spazio agli investimenti nel settore dei servizi e costruzioni, con particolare interesse verso i servizi finanziari e assicurativi, che nel 2010 rappresentavano il 54% dell’intero stock di IDE, pari a poco meno di 200 miliardi di euro su un totale di 366 miliardi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione di Unicredit sul territorio europeo per avere un’idea di cosa si intenda con IDE nell’ambito dei servizi finanziari. Infine, come si può osservare nella tabella 2, la forbice fra gli stock di IDE in uscita e in entrata nel nostro Paese è aumentata considerevolmente dal 2005 a oggi, passando da un valore positivo di circa 6 miliardi a 143 miliardi. A titolo di esempio, ricordiamo che l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina vale 7,1 miliardi, 1/20 della suddetta forbice.
Ideconf
Per dare maggiore consistenza ai numeri riportati nella tabella 2, ricordiamo che stiamo parlando di 30.351 imprese nel mondo con un fatturato complessivo di oltre 560 miliardi di euro, che danno lavoro a oltre 1,5 milioni di dipendenti (dati 2013) e sono diffuse in oltre 160 Paesi: il 52% dislocate nei Paesi dell’UE-27, un 10% in altri Paesi europei, un altro 19% tra Nord America (11%) e Sud America (8%).
Chi investe in Italia?
L’altra questione rilevante è comprendere quali aziende investono in Italia: quali sono i settori coinvolti, quali la loro origine geografica, quali le conseguenze sul sistema Paese? Nel 2013 in Italia 9.367 imprese erano partecipate da aziende estere, occupando poco più di 915.000 dipendenti, per un fatturato complessivo poco al di sotto di 500 miliardi di euro, circa 1/3 del PIL italiano. Le imprese estere interessate al nostro mercato provengono per il 60% da Paesi dell’UE-27, per un altro 20% dal Nord America e solo per l’8% dai Paesi asiatici: in generale, è geograficamente molto più ampia la distribuzione geografica delle imprese italiane con partecipazioni all’estero che viceversa. Non dimentichiamoci che sono Paesi nostri alleati storici quelli da cui provengono la maggior parte delle imprese che investono in Italia. Un altro aspetto da rilevare è l’interesse che le imprese estere hanno per il meglio dell’imprenditoria italiana. Secondo il rapporto dell’ICE “Italia Multinazionale 2014”, il valore aggiunto medio per dipendente delle imprese a partecipazione estera nel 2012 era pari a €114.500, contro una media per le imprese italiane con più di 20 dipendenti (quindi, escludendo molte PMI) era pari a €74.300: una discrepanza «coerente con la teoria e le verifiche condotte internazionalmente circa le superiori prestazioni delle filiali delle [imprese multinazionali] rispetto alle imprese domestiche, grazie alle maggiori competenze, tecnologie, capacità manageriali e ai vantaggi di scala e di network» . In sostanza, quando l’Italia attira IDE lo fa in forza della sua capacità competitiva e non in quanto preda da cui spolpare delle risorse. Per di più, il knowhow che si può acquisire dal diretto contatto con imprese estere è un’opportunità che dovrebbe essere colta e non vista come possibile minaccia.
Criticità
Alcune considerazioni finali. La letteratura economica evidenza 4 motivi per cui un’impresa dovrebbe investire all’estero: primo, ricercare vantaggio in termini di costo di produzione, per esempio grazie a manodopera a basso costo; secondo, avvicinarsi ai clienti nei mercato, superando barriere doganali e riducendo i costi di trasporto; terzo, assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime o risorse scarse; quarto, investimenti volti ad acquisire brevetti, tecnologie, conoscenze. Gli IDE dall’estero verso l’Italia rispondono a 2° e al 4° motivo: siamo un mercato interessante per le aziende straniere e un sistema ricco di competenze. Mantenere vivo l’interesse verso gli IDE dall’estero, il famoso “shopping”, può implica sia ravvivare il mercato italiano, sostenendo ad esempio la domanda interna, sia arricchire ancor di più il sistema di personale qualificato e di aziende competitive: non è un caso che il Paese col più alto stock di IDE in entrata rispetto al totale degli IDE sia gli Stati Uniti (17,2% nel 2012). Casomai, l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe orientarsi su come favore le imprese italiane nell’acquisizione di partecipazioni all’estero. Ricorda la Banca d’Italia che le aziende che investono in partecipazioni all’estero risultano essere in termini di valore aggiunto in media 3 volte più grandi delle aziende esportatrici e 5 volte più grandi di quelle orientate al solo mercato interno . Se vogliamo continuare a essere investitori attivi e non vittime della globalizzazione, la chiave è sempre e solo una: investire in capitale umano, in conoscenza, in efficienza del sistema produttivo.