Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.