I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea
Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore
Fino a che le riforme saranno vissute come un suicidio politico dai governi che ancora non le hanno fatte (Francia e Italia) e il rilancio della crescita economica europea sarà sentito come un vero e proprio “harakiri” dai governi che la crescita, poca, ancora ce l’hanno (Germania e nordici), l’eurozona non cesserà di ballare ai bordi di un vulcano a costante rischio di eruzione.
Non è un caso che subito dopo un vertice Ue, che sabato a Bruxelles ha rafforzato il controllo tedesco sui principali gangli istituzionali europei, e alla vigilia della riunione della Bce giovedì a Francoforte siano riesplose le polemiche tra i due fronti contrapposti. Al centro anche Mario Draghi e la sua giacca, strattonata con malagrazia da entrambi.
Sullo sfondo l’economia reale, in bilico tra recessione e deflazione, moltiplica i segnali negativi: ieri il turno della produzione manifatturiera, ai minimi da 13 mesi e a ritroso in Germania, Francia e Italia, cioè nei due terzi dell’Eurozona. Come nell’estate del 2012 aveva evitato l’implosione dell’euro annunciando che la Bce avrebbe preso «tutte le misure necessarie» per impedirla, così quest’estate Draghi ha lanciato un doppio messaggio per battere la duplice emergenza europea: il ricorso da un lato a tutti i mezzi, quantitative easing incluso se necessario, per fermare la deflazione e dall’altro, «visto che la politica monetaria da sola non può rilanciare l’economia», l’invito ai Governi a fare le riforme creando spazi per una politica fiscale più morbida.
Come nel 2012 i mercati hanno accolto bene il segnale. I Governi no. E per ragioni opposte. La Germania teme una svolta americana nella politica della Bce, il ripudio dell’ortodossia dei Trattati. «I paesi che hanno seguito politiche di rigore, in cambio degli aiuti al loro salvataggio, stanno facendo molto meglio di tutti altri in Europa: a volte le medicine sono amare ma fanno bene. La crescita carburata dai deficit, invece, porta al declino economico» ha tuonato il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Richiamo diretto a Parigi, Roma e… Francoforte.
Sul fronte opposto della barricata, invece, l’Italia di Matteo Renzi, presidente di turno dell’Ue, ha convocato per il 7 ottobre un vertice europeo straordinario su crescita e occupazione mentre la Francia di François Hollande insiste ad alta voce sulla flessibilità delle regole di stabilità in tempi di crisi e invoca una maggiore spinta alla crescita da parte della Bce, compreso un ritocco al ribasso del valore dell’euro rispetto al dollaro.
Con la sua visita ieri a Parigi, Draghi ha provato a ricucire con tutti sottolineando, insieme a Hollande, che gli strumenti per il rilancio della sviluppo «dovranno sempre rispettare i patti europei». Parole ovvie, prevedibili e scontate. Termometro evidente però delle crescenti tensioni che bollono nell’Eurozona. E che potrebbero indurre la Bce a una maggiore cautela rispetto agli annunci di agosto e alle aspettative dei mercati, con possibili effetti boomerang sui tassi e sui costi di finanziamento dei debiti sovrani.
Nessuno nega l’urgenza delle riforme strutturali che in Paesi come l’Italia e la Francia oggi appaiono prioritarie rispetto al ripianamento di debiti e deficit: non solo per rimettere in moto una crescita solida e sostenibile ma per evitare che eccessive divergenze nell’Eurozona provochino lo strabismo della politica monetaria unica, alla lunga insostenibile.
Nessuno però può ignorare le difficoltà politiche della sterzata: a Sud come a Nord. Con la popolarità al 17%, più di tanto Hollande non può remare contro il Paese, soprattutto non può farlo in fretta. Con Alternativa per la Germania, il partito nazionalista e anti-euro che ha ottenuto il 10% dei voti in Sassonia entrando per la prima volta in un parlamento regionale, nemmeno Angela Merkel ha larghi margini di manovra per solidarizzare sulla crescita europea, anche se il riequilibrio del super-attivo dei conti correnti sarebbe un atto dovuto secondo i patti europei. Il cui rispetto vale per tutti.
La politica del surplace, l’ortodossia immobilista, la mancanza di coraggio politico oggi avrebbero effetti disastrosi per tutti. La lezione greca dice che una crisi marginale, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, si è trasformata in crisi totale per la rigidità mentale e la miopia di chi in Europa l’ha gestita. L’emergenza crescita, da anni relegata in frigorifero, non può attendere oltre. Per dare risultati le riforme richiedono anni. Un’inerzia prolungata su azioni di sostegno finirebbe per travolgere l’Europa proprio quando ha un disperato bisogno di unità e coesione di fronte alla Russia di Putin che la sbeffeggia.