Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La tenuta dello spread BTp-Bund, dopo il declassamento di Standard & Poor’s, non deve ingannare. L’Italia si giova in questa fase dell’attesa del Quantitative easing, dato ormai sui mercati come un’opzione più che concreta. E questa fiducia fa premio su qualunque altra considerazione. Perdere di vista, però, che il nostro Paese resta fortemente a rischio nei giudizi degli investitori internazionali sarebbe un errore madornale. Era la seconda metà del 2010, quando in un’intervista al Sole 24 ore l’allora ministro dell’Economia osservava: «La curva dei tassi italiani è da tempo nella media europea. Oggi è a un tranquillo 127. Detto per inciso i debiti sovrani non sono più tanto di moda sui mercati finanziari». Dopo meno di un anno i tassi italiani avrebbero cominciato la loro corsa fino a portare lo spread al drammatico 575 dell’autunno 2011.

Ieri i decennali hanno chiuso con uno spread a 122, molto vicino a quel 127 che dava tranquillità a Giulio Tremonti, ma oggi come allora non c’è alcuno spazio franco su cui poter contare. C’è il possibile scudo del Qe, ma comprare titoli italiani a dieci anni con un rendimento sotto il 2 per cento resta una scelta tutt’altro che scontata. Perché non scontata è la sostenibilità del nostro debito, senza crescita economica e con una deflazione divenuta ormai realtà. Al di là della scarsa credibilità delle agenzie di rating, che ormai non muovono più i mercati come una volta, il declassamento da parte di S&P’s ha evidenziato un tema che è ormai sulla bocca di tutti nel mondo finanziario: la mancata crescita rischia di rendere davvero il debito pubblico italiano poco sostenibile, malgrado gli avanzi primari e gli esercizi di rigore. Sarebbe un grave errore se, in questa situazione, la politica italiana si adagiasse sotto lo scudo del possibile Qe. Si adagiasse e pensasse di potersi permettere di girare a vuoto per mesi tra tatticismi e agguati parlamentari sui temi del Quirinale e delle riforme istituzionali.

Al contrario vanno fatti subito e bene i decreti attuativi del Jobs act. Tenendo molto presente che l’obiettivo di creare posti di lavoro si centra se si rende davvero più agevole alle imprese assumere, in termini di costi e di regole. Allo stesso modo non va sprecata l’attuazione della delega fiscale per rendere, se non più amico, almeno meno persecutorio il fisco italiano. Vanno portate a casa le modifiche alla manovra con un pacchetto di misure in favore degli investimenti e dell’economia reale, a cominciare dal trattamento fiscale dei grandi macchinari imbullonati (presse, forni…) che solo la irragionevolezza del fisco italiano (e soprattutto locale) può equiparare a beni immobili.

Piuttosto che organizzare manipoli di guastatori pronti ad affossare candidati al Colle, sarebbe un grande messaggio verso il Paese se ogni forza politica contribuisse ad affrontare il nodo delle 8mila società partecipate intorno alle quali ogni giorno si alimenta il malaffare e muore un pezzo di economia italiana. È il buco nero della spending review, tocca interessi trasversali, anche vicini al governo dei sindaci, ma come dimostra l’inchiesta romana è un cancro di cui non può non occuparsi la politica prima che debba farlo la magistratura. Se Renzi davvero non vuole «lasciare Roma – e non solo Roma – ai ladri», sarebbe ora di passare ai fatti sulla dismissione, l’accorpamento e il risanamento di queste società.

Se però la politica italiana è chiamata oggi più che mai a dimostrare responsabilità, c’è davvero da domandarsi sulla ragionevolezza di chi ci guarda da Bruxelles. La rigidità con cui ieri l’Italia è stata richiamata alla correzione dello 0,5% del rapporto deficit/Pil per il prossimo anno è un’offesa al buon senso. Tanto più stridente nel momento in cui è la stessa Banca centrale europea ad aprire a una politica più espansiva. Non basta, dice la Commissione, la correzione prevista dello 0,1%, e già portata un mese fa allo 0,3%: bisogna centrare lo 0,5%. Come dire che va tolta un’altra manciata di miliardi dal rilancio della crescita. E poco importa se alla fine in questo modo si finirà per danneggiare lo stesso obiettivo della sostenibilità dei conti pubblici. Ottusità, che sono ancora più gravi proprio nel momento in cui può aprirsi per l’Europa e per l’Italia una finestra di opportunità. Il rilancio della crescita americana, lo stesso quantitative easing, i margini di competitività offerti da un’opportuna svalutazione dell’euro, i bassi prezzi del petrolio sono tutti fattori che potrebbero dare una spinta all’Europa nei prossimi mesi. Tocca alla politica, europea e italiana, cogliere quei segnali e accompagnarli con politiche e azioni utili a ricreare quell’ambiente di fiducia senza il quale non ci sarà né crescita né stabilità finanziaria.