I tanti annunci gelano la fiducia
Federico Fubini – La Repubblica
Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.
Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.
Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.
La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.
Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.
Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.
Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.