deflazione

La deflazione e il governo Renzi

La deflazione e il governo Renzi

Carlo Debenedetti – Il Foglio

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’Eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente.

In tutti i documenti ufficiali delle Banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington.

Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

È anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle Banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone. Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3 per cento (0,8 per cento depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un’area che rappresenta un quinto dell’output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi.

È da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. È una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione. Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali.

L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel Dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia. Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano.

Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore a esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri Istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare. La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del pil.

Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l’Europa che ha una popolazione uguale al 5 per cento di quella mondiale, un pil pari al 20 per cento e un debito pari al 50 per cento del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l’Italia che ha l’1 per cento della popolazione mondiale, il 2.5 per cento del pil e il 20 per cento del debito mondiale.

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l’Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto. Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l’Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9 mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.

Resta la deflazione e arretra il Pil

Resta la deflazione e arretra il Pil

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

L’Italia rimane in deflazione anche a settembre: -0,3% rispetto al mese precedente. E a raffreddare sempre di più i prezzi, secondo i dati dell’Istat, sono ancora l’energia, le comunicazioni e gli alimentari. A peggiore il quadro macroeconomico ieri è arrivato anche la nota mensile Istat che prevede una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre dell’anno, un revisione al ribasso rispetto all’intervallo di +0,2%/-0,2% della precedente stima. La causa è la contrazione del Pil nel secondo trimestre dello 0,2%. Nell’area euro non è ancora scoccata l’ora della deflazione ma la debolezza della domanda ha prodotto un’altra frenata dei prezzi: dallo 0,4% allo 0,3%, vicino alla crescita zero. La stima flash dell’Eurostat individua moderati spostamenti dei prezzi per servizi, alimentari e beni industriali e un deciso arretramento dell’energia.

Tornando all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’Istituto di statistica, l’indice nazionale dei prezzi al consumo è calato a settembre dello 0,1% su base annua, lo stesso valore toccato ad agosto quando il Paese é tornato in deflazione per la prima volta dal 1959. A settembre i cali congiunturali più pronunciati dei prezzi sono quelli di trasporti (-3%), ricreazione e cultura (-0,6%) e comunicazioni (-0,4%). Dall’altro aumenti sono stati segnati dai servizi ricettivi e di ristorazione (+0,8%), dall’istruzione (+0,6%), da alimentari e bevande analcoliche (+0,2%), dall’abbigliameno e dai mobili. Rispetto a un anno fa, i prezzi delle comunicazioni risultano in marcata flessione (-8,2%) così come sono in diminuzione i prezzi di abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-1,2%) e quelli di alimentari e bevande analcoliche (-0,1%).

Secondo l’ufficio studi di Confcommercio «al di là degli effetti stagionali, i dati Istat riflettono le difficoltà della domanda per consumi. Nell’ultimo anno, nonostante l’aumento dell’Iva che ha coinvolto circa il 50% dei beni e servizi compresi nel paniere, in sei occasioni i prezzi hanno registrato una diminuzione congiunturale, fenomeno che appare ancora più eccezionale se si considera che non è stato determinato da crolli delle materie prime alimentari o petrolifere». Confcommercio conclude che è necessario attuare, con la prossima legge di Stabilità, «misure efficaci che, modificando favorevolmente le aspettative di famiglie e imprese, scongiurino il pericolo che la deflazione si consolidi». Per Sergio de Nardis, capo economista di Nomisma, «l’inflazione negativa influisce sulle attese future dei prezzi, aumenta i tassi di interesse reali e deprime l’economia. Serve una politica fiscale di stimolo e una politica monetaria espansiva». Coldiretti sottolinea che «gli effetti negativi congiunti di deflazione e consumi si evidenziano con il -4,4% dei prezzi dell’ortofrutta e con gli acquisti scesi ben al di sotto del chilo al giorno per famiglia, un valore inferiore a quello raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità».

Se la ripresa dei beni di consumo è una delle condizioni per superare la deflazione, qual è il quadro della domanda più aggiornato? Nelle vendite al dettaglio l’Istat segnala il -1,1% nei primi 7 mesi dell’anno mentre Iri registra un pessimo agosto nel largo consumo: -3,1% a valore, anche per il calo dei prezzi. Nell’abbigliamento e calzature, invece, Sita-Nielsen indica un -3% delle vendite da gennaio a luglio. Meno peggio dell’anno primo: -7 per cento.

Un Paese senza motore

Un Paese senza motore

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un’inflazione molto bassa in Eurolandia. Come conseguenza, una deflazione – si spera non ancora “cattiva”, cristallizzata al punto da far rinviare gli acquisti – in Italia. L’indice armonizzato italiano è alato a settembre e agosto, dopo essere rimasto fermo in luglio. È questo il dramma della lowflation, la bassa inflazione che attanaglia l’Unione monetaria. Costringe i Paesi in difficoltà a veder calare i prezzi per restare competitivi verso i partner dell’area: in assenza di un cambio che possa assorbire l’urto, tocca a prezzi e salari muoversi più lentamente che nei Paesi già in ripresa. Quando però la media di Eurolandia è così bassa, l’inflazione della Germania è allo 0,8% e quella francese (ad agosto) allo 0,4%, non c’è altra possibilità che far calare i propri prezzi. Ben diversa sarebbe la situazione se l’inflazione media di Eurolandia fosse al 2%, e quella tedesca o francese un po’ più alta…

Le cose potrebbero essere ancora tollerabili se i prezzi calassero tutti insieme e nella stessa misura per tutti i beni e servizi. Non è mai così. Ad agosto per esempio i prezzi alla produzione di beni durevoli e di quelli strumentali erano in crescita; mentre è quasi impossibile comprimere i salari. La soluzione, per molte aziende, è chiudere, con una tragica perdita di posti di lavoro e di capacità produttiva, di “potenza” del motore dell’economia. Secondo l’Istat anche nel terzo trimestre il Pil italiano risulterà in flessione: le conseguenze di questa terza recessione minacciano di essere durature.

Il prezzo che l’Italia sta pagando per questa lowflation è dunque altissimo e paradossale: i suoi problemi, l’alto debito pubblico e la rigidità dell’economia, hanno sempre minacciato inflazione, non deflazione. È anche per questo motivo che non si capiscono più gli ostacoli politici posti alla Banca centrale europea nel suo compito di tenere sotto controllo i prezzi. È vero che gli strumenti della politica monetaria possono creare effetti perversi, premiare banche, aziende e governi imprudenti e inefficienti e dare a tutti una cattiva lezione. Lasciare però che tutto questo faccia perdere di vista alla Bce l’obiettivo principale, tenere l’inflazione al 2% nel medio periodo, sembra un errore di calcolo dai costi molto più elevati dei benefici.

Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

In economia dobbiamo rimontare la classifica

In economia dobbiamo rimontare la classifica

Romano Prodi – Il Messaggero

Sarà stato il tempo autunnale di questa strana estate ma è certo che le ferie estive non hanno dissolto nessuna delle nebbie che gravano sull’economia mondiale. L’Asia continua a tirare ma con qualche incertezza in più, gli Stati Uniti hanno rallentato la loro crescita, molti Paesi in via di sviluppo stanno perdendo l’energia degli ultimi anni (persino il muscoloso Brasile va sotto zero) e l’Europa non si sveglia dal suo lungo sonno, anche perché la tensione ucraina, con le conseguenti chiusure del mercato russo, completa il quadro negativo di questa stagione.

Sarebbe tuttavia inappropriato attribuire principalmente alle tensioni politiche il cattivo andamento dell’economia europea: la nostra crisi ha radici lontane e ben poco è stato fatto per cambiare direzione. Per più di un anno e mezzo abbiamo ripetuto con noiosa monotonia che la crescita tedesca, fondata esclusivamente sulle esportazioni, non poteva avere vita lunga e che la Germania avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di locomotiva dell’Europa solo se avesse iniettato nuovo potere d’acquisto nel suo mercato interno.L’illusione che la virtù germanica fosse più forte di ogni regola economica, che l’inflazione rimanesse l’eterno grande nemico e che i mercati esteri avrebbero per sempre sostenuto la crescita, ha impedito alla Germania di svolgere il ruolo di locomotiva che la sua dimensione economica e la sua responsabilità politica avrebbero dovuto comportare.

Finite le ferie estive ci accorgiamo di due nuove realtà. La prima è che la Germania non solo non è più in grado di fare da locomotiva ma ha cominciato ad essere un freno e che le previsioni dei suoi operatori economici peggiorano di giorno in giorno. Gli investimenti tedeschi veleggiano ormai verso un minimo storico, nonostante la necessità di recupero sia del settore pubblico che di quello privato. La seconda è che non solo non esiste alcun pericolo di inflazione ma che siamo ormai in piena deflazione. L’aumento dei prezzi non raggiungerà in ogni caso il mezzo punto all’anno mentre l’obiettivo della Banca Centrale Europea lo fissava intorno al due per cento.

Nessuna seria correzione è in vista né da parte delle autorità europee né dei singoli governi dell’Unione. È vero che il nuovo presidente della Commissione Juncker ha sottolineato la necessità di dare una spinta allo sviluppo ma poi si è dovuto accontentare di mettere a disposizione dell’intera UE una somma di cento miliardi all’anno per tre anni. Un passo nella direzione giusta ma non paragonabile a quello che fece Obama quando, per contrastare la crisi, iniettò nel sistema economico americano ottocento miliardi di dollari in un solo colpo. Quanto alla politica dei singoli Paesi, i messaggi di fine agosto sono a dir poco contrastati: in Francia il ministro dell’Economia è stato licenziato perché reputato uno spendaccione contro l’austerità mentre in Austria il “falco” Spindelegger si è dimesso per l’opposto motivo.

Il ruolo di armonizzare le diverse politiche ricade ancora una volta sulle spalle della BCE, anche se essa ha poteri assai più limitati di quelli della sua consorella americana. Nella cacofonia europea le parole di Draghi sulla necessità di utilizzare “una maggiore flessibilità nell’ambito delle regole esistenti” in modo da aiutare la ripresa e diminuire i costi delle riforme strutturali hanno fatto compiere un salto in alto a tutte le borse ed hanno contribuito ad abbassare i differenziali dello “spread” fra i titoli pubblici dei diversi Paesi europei. Una risposta positiva dei mercati al messaggio della BCE, nella convinzione che il cambiamento di politica europea fosse maturo, dato che la ripresa europea era ormai divenuta una condizione essenziale anche per la ripresa della crescita germanica.

A porre fine a queste illusioni ci ha pensato rapidamente il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble, che ha brutalmente affermato che Draghi è stato male interpretato. Per rincarare la dose il responsabile dell’economia tedesca ha aggiunto che la BCE ha già usato tutti gli strumenti che essa ha disposizione nella lotta contro la deflazione e che quindi deve starsene buona. In poche parole la Germania non solo non intende cambiare politica aiutando a fermare il declino europeo ma dice a Draghi di non fare nulla perché ormai è andato oltre i suoi compiti.

Gli osservatori internazionali (a cominciare dall’Economist) pensano che una situazione di questo genere possa portare a una nuova crisi dell’Euro. Io non lo penso anche perché Draghi ha ancora molte armi da usare per combattere la recessione e ha ripetutamente espresso la volontà di usarle. In questo quadro tuttavia non mancheranno le tensioni e, come ben sappiamo, le tensioni speculative sono selettive e tendono a colpire i Paesi a uno a uno, cominciando dall’ultimo della classe. Purtroppo, tra i grandi membri dell’UE, noi siamo ancora gli ultimi della classe. È bene prenderne nota e reagire con serietà e con rapidità.

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Lucio Cillis – La Repubblica

Lo spettro che si aggirava sul Paese, ieri si è materializzato. L’Italia è caduta in deflazione. Come non accadeva da esattamente 55 anni. Era infatti il settembre del 1959 quando fu registrato un segno negativo dell’1,1% sull’andamento tendenziale dei prezzi. Ma quella era la vigilia del boom economico. Mentre oggi la tenaglia della crisi stringe anche sulla recessione accompagnata da una disoccupazione che arriva al 12,6% con quasi mille posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio.

Ma non basta: il tasso di disoccupazione della fascia compresa tra i 15 e i 24 anni, resta il più duro da digerire e risolvere in breve tempo, visto che la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro in questa forbice di età sfiora ormai il 43%.

Sono dati pesantissimi e molto preoccupanti sui quali, secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Occorre – dice riflettere per trovare la capacità di ricreare lavoro. E questo può venire solo dalle imprese…». L’inflazione vira verso una contrazione dei prezzi che rispetto all’agosto del 2013, sono diminuiti dello 0,1%. I dati dell’Istat certificano che l’indice al lordo dei tabacchi, è cresciuto rispetto al mese di luglio dello 0,2% e mette per la prima volta il segno meno dal 1959. Il crollo dei listini, secondo la stima provvisoria, è dovuta alla flessione anno su anno dei prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli non regolamentati che dal più 0,4% di luglio passano al segno meno (dell’1,2%), e al parallelo rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi dei servizi. Andamenti, questi, solo in parte controbilanciati da una frenata nella discesa dei prezzi degli alimentari non lavorati passati a meno 1,7% dal meno 2,9% messo a segno a luglio.

Da notare che anche la cosiddetta inflazione core, o “di fondo”, ritenuta un termometro efficace dello stato dell’economia e delle prospettive, calcolata al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, scende anch’essa: dallo 0,6% di luglio allo 0,5%. Ma nel corso dei prossimi mesi, secondo quanto lo stesso istituto di statistica anticipa nelle sue analisi, i dati macroeconomici non potranno che peggiorare: con ogni probabilità, la ripresa non arriverà nemmeno nel corso del terzo trimestre. Anzi, le previsioni dell’Istat sottolineano addirittura il rischio di un ulteriore arretramento dello 0,2% del Prodotto interno lordo o, comunque, di una sostanziale stagnazione del quadro macroeconomico.

Sono dati questi, che fanno riflettere per le conseguenze in Italia ma che dovrebbero aprire un nuovo scontro in Europa dove, però, si è levata per prima la voce del ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schauble secondo cui «la Bce non ha più munizioni per combattere la deflazione». E questo nonostante il dato sull’inflazione, reso noto a livello europeo ieri, si sia collocato a quota +0,3%. Un livello pericolosamente vicino al baratro della deflazione e molto lontano dal target europeo fissato al 2%. La parola, ora passerà alla riunione di metà settimana della Bce e alle mosse di Mario Draghi.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

Eugenio Fatigante – Avvenire

Finalmente una buona notizia, Così potrebbe pensare l’ignaro lettore, poco esperto di cose economiche, nel leggere che dopo 55 anni l’Italia è in deflazione (e l’Europa ci si avvicina). Bene, i prezzi scendono, quindi il conto nei negozi e nei supermercati diventa più basso (pur ricordando che si tratta, come sempre, di un indice, quindi di una media, e che ci possono essere anche prodotti i cui prezzi salgono ancora): non capirebbe allora – sempre il nostro ignaro lettore -il perché dei toni tanto preoccupati che si leggono nei commenti davanti a questo fenomeno. 

Cosa c’è che non va nel livello dei prezzi entrato in territorio negativo, e comunque lontano da quel 2% “ideale” che è l’obiettivo fissato dalla Bce di Francoforte? La questione va vista sotto due punti di vista: quello strettamente legato al costo della vita e i suoi riflessi sui conti pubblici. Nel primo campo, come spiegano tutti i manuali di economia la dinamica dei prezzi “versione 2014” diventa negativa perché, in questo caso, non è la conseguenza di un aumento di produttività delle industrie, bensì della bassa domanda di beni e servizi e del calo globale dei consumi. Va poi considerato che, secondo diversi economisti, la presenza di prezzi al ribasso e l’aspettativa di un’ulteriore discesa finiscono per spingere i consumatori, soprattutto per i beni più costosi, a rinviare ancora gli eventuali acquisti nella speranza che il prezzo di quel bene cali ancora. Ma questo è il minimo. L’aspetto più grave è che gli scontrini più bassi (per i consumatori) hanno un rovescio della medaglia; si riducono pure i margini di ricavo di supermercati e negozi e, con essi, quelli delle imprese produttrici. Di conseguenza si hanno meno investimenti, meno posti di lavoro e  salari ridotti. Ecco, allora, che il portafoglio in cui restano più soldi per la spesa, allo stesso tempo si “alleggerisce” – in via generale – per i problemi occupazionali e salariali. Rischiando di innescare una vera spirale deflattiva, che porta a prezzi ancor più bassi. Insomma, il vantaggio della deflazione c’è solo per chi ha l’assoluta certezza del posto di lavoro e anche di un reddito medio-alto.

C’è poi l’altro versante per cui l’inflazione negativa diventa deleteria, anche per la vita delle famiglie: gli effetti sul bilancio dello Stato. Per far comprendere questo “passaggio” basti pensare a 10mila euro chiesti in prestito a un amico, da restituire dopo 2 anni senza interessi. In condizioni normali, con prezzi e salari che salgono, il valore di quei 10mila euro diventa inferiore per chi li rimborsa perché, pur restando sempre 10mila, con quella somma – trascorsi 24 mesi – si possono in realtà comprare meno beni e servizi. Grosso modo lo stesso avviene per gli Stati che hanno un alto debito pubblico (come l’Italia), con la “complicazione” degli interessi. Per questo si afferma che una delle armi per contenere il debito è, oltre al ritorno alla crescita, un “certo livello” d’inflazione, non troppo basso. 

Cerchiamo di farci capire anche qui con un esempio. Ai livelli massimi toccati dai tassi di interesse sui titoli italiani contribuiva anche un alto livello di inflazione: nel pieno della tempesta che ci colpì, nel novembre 201 1, il rendimento del Btp decennale aveva toccato il 7,5%, ma l’inflazione veleggiava al 3% e questo dava una “spinta” anche alle voci in entrata del bilancio. Il rendimento reale (e quindi il costo “vero”del rimborso del debito per lo Stato) era attorno al 4%. Oggi, pur essendo sceso il Brp sotto il 3%, con l’inflazione sottozero il costo resta quasi uguale per il Tesoro. Solo se l’inflazione fosse rimasta attorno al 2%, il costo del servizio del debito si sarebbe tramutato in un reale beneficio per le casse pubbliche (quello “vero”, difatti, si sarebbe ridotto a un 1%). Questo spiega perché la deflazione finisce col penalizzarci ancor più nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Ue. E la cosiddetta “sostenibilità “del debito diventa un problema ancor più grave.

Un cono gelato e poco altro

Un cono gelato e poco altro

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Si capisce che non è il momento migliore per Matteo Renzi, da centravanti di sfondamento deve improvvisarsi mediano, difendere invece che attaccare. E gli costa fatica. “Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati, al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”. Lucio Battisti, I giardini di marzo, offre la sintesi della giornata politica. 

CREMA E LIMONE. Cortile interno di Palazzo Chigi: Matteo Renzi scende al termine del Consiglio dei ministri e c’è un gelataio della catena Grom con apposito carretto. Un cono crema e limone per rispondere all’Economist che ha ritratto il premier sulla barca di carta dell’economia europea mentre fissa il vuoto e tiene un gelato in mano. “Il gelato artigianale è buono, non ci offendiamo per le critiche, perché facciamo un lavoro serio”, il premier lecca e offre ai giornalisti di condividere (non succede), abbronzato dopo le vacanze a Forte dei Marmi, ma ancora un po’ appesantito nonostante il tennis pomeridiano. Poi conferenza stampa. 

PASSODOPOPASSO. Ormai ci vuole un dizionario per orientarsi nella propaganda governativa: Renzi presenta una nuova serie di slide, nome in codice “passodopopasso” che servono a indicare la traccia del “programma dei mille giorni” che verrà presentato in un`altra conferenza stampa e servirà a dare sostanza alla promessa di “cambiare verso” all’Italia. Tutto questo si sostanzia in una serie di provvedimenti, qualche decreto e molti disegni di legge delega dai tempi lunghi, testimone sempre – non se ne possono leggere, bisogna affidarsi alla trasmissione orale delle promesse. Che sono, ovviamente, tantissime. Ma per una volta non trasmettono la consueta frenesia renziana, bensì un po’ di affanno. “Tanta roba”, dice l’ex sindaco di Firenze con una delle espressioni più à la page del vocabolario renziano, ma non ci crede neppure lui.

I SOLDI. Quanto vale il decreto sblocca Italia? Non si sa. “Zero”, dice il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan, riferendosi all’impatto netto sulla finanza pubblica. Renzi aveva promesso di “sbloccare” 43 miliardi di euro per le opere pubbliche. A sentire il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, ce ne sono giusto 3,8. Soldi che già c”erano e che cambiano destinazione. Il premier prova a riassumere: il decreto Sblocca Italia “tenta di risolvere e anticipare una serie di problemi burocratici che si sono creati”. Sbadigli in sala.

LA MINISTRA. Renzi sa che giornali e tg si eccitano per i numeroni e le grandi riforme, questa volta non ne ha da offrire e quindi snocciola elenchi di misure che sembrano più da amministratore di condominio che da presidente del Consiglio. Il colpo doveva essere la riforma della scuola, ma il ministro delI’Istruzione Stefania Giannini ha rubato i titoli dei giornali al premier, anticipandone i contenuti. Risultato? Niente riforma. “Si farà mercoledì”, dice Renzi che si riappropria del dossier e anticipa che “non ci sarà la stabilizzazione dei precari”, ma un misto di posti per chi è in graduatoria combinato con la valutazione della performance. Vedremo. Di giustizia Renzi non vuole parlare troppo: si capisce che la considera una fastidiosa eredita della Seconda repubblica segnata dai guai di Silvio Berlusconi. Al premier piace presentare la riforma della giustizia civile, “dimezzeremo i processi”. Il resto lo lascia al Guardasigilli Andrea Orlando (vedi pezzo qui sotto). 

80 EURO SBIADITI. La deflazione, la recessione, i consumi che continuano a crollare. Anche sull’unica misura importante del suo governo, il bonus Irpef da 80 euro al mese per i redditi bassi, Renzi deve giocare in difesa, parare critiche di aver speso male 6,6 miliardi e di prepararsi a buttarne 10 all’anno con la legge di Stabilità. “Apprezzo chi mi contesta sugli 80 euro perché dimostra d avere un’altra filosofia, un’altra idea dell’Italia. Noi il bonus lo confermeremo”. Traduzione: io taglio le tasse ai dipendenti, mentre gli economisti, Forza Italia e la Confindustria vorrebbero usare quei soldi a favore delle imprese (il Pil salirebbe, ma non i voti al Pd).

MOGHERINI FOREVER. Renzi elenca la lunga teoria di vertici domestici e internazionali che lo attendono. Ma soltanto uno gli interessa davvero: quello di oggi a Bruxelles, il Consiglio europeo che ratificherà la nomina di Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il premier si è impuntato, si è giocato la reputazione su una nomina di prestigio e – nonostante una vasta opposizione di giornali e governi – dovrebbe vincere. Questa notte, quando arriverà in conferenza stampa a Bruxelles, Renzi confida di tornare ai toni trionfalistici che gli sono più consoni.