In economia dobbiamo rimontare la classifica

Romano Prodi – Il Messaggero

Sarà stato il tempo autunnale di questa strana estate ma è certo che le ferie estive non hanno dissolto nessuna delle nebbie che gravano sull’economia mondiale. L’Asia continua a tirare ma con qualche incertezza in più, gli Stati Uniti hanno rallentato la loro crescita, molti Paesi in via di sviluppo stanno perdendo l’energia degli ultimi anni (persino il muscoloso Brasile va sotto zero) e l’Europa non si sveglia dal suo lungo sonno, anche perché la tensione ucraina, con le conseguenti chiusure del mercato russo, completa il quadro negativo di questa stagione.

Sarebbe tuttavia inappropriato attribuire principalmente alle tensioni politiche il cattivo andamento dell’economia europea: la nostra crisi ha radici lontane e ben poco è stato fatto per cambiare direzione. Per più di un anno e mezzo abbiamo ripetuto con noiosa monotonia che la crescita tedesca, fondata esclusivamente sulle esportazioni, non poteva avere vita lunga e che la Germania avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di locomotiva dell’Europa solo se avesse iniettato nuovo potere d’acquisto nel suo mercato interno.L’illusione che la virtù germanica fosse più forte di ogni regola economica, che l’inflazione rimanesse l’eterno grande nemico e che i mercati esteri avrebbero per sempre sostenuto la crescita, ha impedito alla Germania di svolgere il ruolo di locomotiva che la sua dimensione economica e la sua responsabilità politica avrebbero dovuto comportare.

Finite le ferie estive ci accorgiamo di due nuove realtà. La prima è che la Germania non solo non è più in grado di fare da locomotiva ma ha cominciato ad essere un freno e che le previsioni dei suoi operatori economici peggiorano di giorno in giorno. Gli investimenti tedeschi veleggiano ormai verso un minimo storico, nonostante la necessità di recupero sia del settore pubblico che di quello privato. La seconda è che non solo non esiste alcun pericolo di inflazione ma che siamo ormai in piena deflazione. L’aumento dei prezzi non raggiungerà in ogni caso il mezzo punto all’anno mentre l’obiettivo della Banca Centrale Europea lo fissava intorno al due per cento.

Nessuna seria correzione è in vista né da parte delle autorità europee né dei singoli governi dell’Unione. È vero che il nuovo presidente della Commissione Juncker ha sottolineato la necessità di dare una spinta allo sviluppo ma poi si è dovuto accontentare di mettere a disposizione dell’intera UE una somma di cento miliardi all’anno per tre anni. Un passo nella direzione giusta ma non paragonabile a quello che fece Obama quando, per contrastare la crisi, iniettò nel sistema economico americano ottocento miliardi di dollari in un solo colpo. Quanto alla politica dei singoli Paesi, i messaggi di fine agosto sono a dir poco contrastati: in Francia il ministro dell’Economia è stato licenziato perché reputato uno spendaccione contro l’austerità mentre in Austria il “falco” Spindelegger si è dimesso per l’opposto motivo.

Il ruolo di armonizzare le diverse politiche ricade ancora una volta sulle spalle della BCE, anche se essa ha poteri assai più limitati di quelli della sua consorella americana. Nella cacofonia europea le parole di Draghi sulla necessità di utilizzare “una maggiore flessibilità nell’ambito delle regole esistenti” in modo da aiutare la ripresa e diminuire i costi delle riforme strutturali hanno fatto compiere un salto in alto a tutte le borse ed hanno contribuito ad abbassare i differenziali dello “spread” fra i titoli pubblici dei diversi Paesi europei. Una risposta positiva dei mercati al messaggio della BCE, nella convinzione che il cambiamento di politica europea fosse maturo, dato che la ripresa europea era ormai divenuta una condizione essenziale anche per la ripresa della crescita germanica.

A porre fine a queste illusioni ci ha pensato rapidamente il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble, che ha brutalmente affermato che Draghi è stato male interpretato. Per rincarare la dose il responsabile dell’economia tedesca ha aggiunto che la BCE ha già usato tutti gli strumenti che essa ha disposizione nella lotta contro la deflazione e che quindi deve starsene buona. In poche parole la Germania non solo non intende cambiare politica aiutando a fermare il declino europeo ma dice a Draghi di non fare nulla perché ormai è andato oltre i suoi compiti.

Gli osservatori internazionali (a cominciare dall’Economist) pensano che una situazione di questo genere possa portare a una nuova crisi dell’Euro. Io non lo penso anche perché Draghi ha ancora molte armi da usare per combattere la recessione e ha ripetutamente espresso la volontà di usarle. In questo quadro tuttavia non mancheranno le tensioni e, come ben sappiamo, le tensioni speculative sono selettive e tendono a colpire i Paesi a uno a uno, cominciando dall’ultimo della classe. Purtroppo, tra i grandi membri dell’UE, noi siamo ancora gli ultimi della classe. È bene prenderne nota e reagire con serietà e con rapidità.