tito boeri

Inps, cosa richiedono le pensioni flessibili alla  Tito Boeri

Inps, cosa richiedono le pensioni flessibili alla Tito Boeri

Giuseppe Pennisi – Formiche

Una premessa: sono totalmente d’accordo con la “puntura di spillo” di Giuliano Cazzola del 3 marzo secondo cui, a ragione  dell’invecchiamento della popolazione (e di restare in pensione tra i 22 ed i 25 anni), saranno pochi coloro che chiederanno un pensionamento anticipato tale comunque da comportare una riduzione delle spettanze e delle prestazioni. Quindi, trovo davvero di lana caprina i commenti dei cosiddetti tecnici della Commissione Europea secondo cui la misura, se attuata, aggraverà la spesa pubblica almeno nel breve periodo (ma la ridurrebbe nel medio e lungo) facendo addirittura ‘saltare’ i conti dell’Italia.

Comunque, le dichiarazioni del Presidente dell’INPS, Tito Boeri, le aperture spesso fatte dal Ministro del Lavoro e degli Affari Sociali, Giuliano Poletti, e le richieste dei sindacati (soprattutto della CISL), in questo senso suggeriscono che si sta andando verso una previdenza pubblica ‘flessibile’, anche sotto il profilo legislativo ed operativo. Occorre sottolineare “pubblica” o “statale” perché gran parte della previdenza privata (i fondi pensione) ha già forti elementi di “flessibilità” in entrata. I fondi pensione di nuova generazione sono collegati, in larga misura, alla previdenza pubblica in uscita; quindi, sotto questo profilo, il loro futuro è legato a quello delle pensioni INPS.

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L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

Davide Giacalone – Libero

L’Italia ha bisogno di chiamare molte più persone al lavoro, non di inventare un reddito per chi non lavora. Finché coltiveremo l’illusione che il reddito sia un diritto e la produzione una eventualità continueremo a perdere competitività, impoverendoci. Nella sua prima intervista da presidente dell’Inps il prof. Tito Boeri dice, da par suo, almeno quattro cose interessanti. La prima, però, merita subito che la precisi e chiarisca: «Bisognerebbe spendere meglio le risorse pubbliche, prevedendo ad esempio un reddito minimo per contrastare le situazioni di povertà, finanziato dalla fiscalità generale». Se per reddito minimo s’intende una retribuzione base per chiunque lavori, è un conto. Da fare. Se s’intende quello che in politichese chiamano «reddito di cittadinanza» è tutt’altro, e va malissimo.

Con la partenza (positiva, se parte) del contratto di lavoro a tutele crescenti, per cui si cancella la non licenziabilità e si acquistano diritti con il passare del tempo, è naturale che cambino gli ammortizzatori sociali e sparisca la cassa integrazione. Ciò comporta disponibilità di fondi adeguati. E già sappiamo che sulla carta ci sono fino all’anno prossimo, mentre dal 2017 scarseggiano e la copertura, in caso di disoccupazione diminuisce. Male, perché son nozze con i fichi secchi. Può starci che si fissi un reddito minimo, che sia tale di nome e di fatto. Come è successo in Germania. Se, invece, andiamo al reddito di cittadinanza, cioè ai soldi elargiti per il solo fatto di esistere, allora ricorderemo i forestali della Calabria come preclaro esempio di sana amministrazione e lodevole dedizione al lavoro. Se si accedesse a una follia di quel tipo, restando ignoto dove mai si possano prendere i soldi, rivaluteremmo le pensioni regalate. Voglio credere che Boeri non abbia sostenuto nulla di simile, ma sarà bene lo spieghi anche agli altri. Mi domando, altrimenti, perché mai un giovane, o anche un maturo, debba andare a faticare per incassare 100 o 200 euro in più di quelli che riceverebbe stando con le mani in mano. O, meglio, usandole per fare lavori in nero. Senza contare la fucina delle truffe, per cui un solo posto di lavoro genera un pensionato, un disoccupato e un occupato, dove uno è pagato dall’impresa e gli altri mantenuti dal contribuente.

Giusta l’idea di rendere flessibile l’età pensionabile, nel senso che ciascuno ha diritto di ritirarsi quando vuole, salvo il fatto che riscuoterà solo in ragione di quel che ha versato. E bene la trasparenza dei dati, che è la sola cosa che manca per avere ciascuno piena contezza di quanto prenderà di pensione. Non è questione di buste gialle o di pin, di carta o d’informatica, perché ci sono centinaia di società private che rendono disponibili, ai loro clienti, quelle previsioni. È la cosa più facile del mondo. Ma a una condizione: che siano chiari e trasparenti i dati. Questo è il problema dell’Inps. Sono sicuro che Boeri farà un buon lavoro, diradando le nebbie. Fatte queste due cose, resi noti i dati e flessibile l’età di uscita, però, ciascuno scoprirà d’essere povero. Le pensioni del futuro saranno più povere. Quelle giuste cose, quindi, hanno un senso non se servono a diffondere la depressione, ma se incentivano al risparmio integrativo. La qual cosa è possibile solo se cala la pressione fiscale. Il che è l’opposto del regalare redditi a chi non lavora. Per tornare da dove siamo partiti.

Boeri, infine, assicura di volere intervenire anche sulle pensioni in essere, laddove la distanza fra il capitale versato e il reddito che se ne ricava è eccessivo. Non illegale, perché tutto discende da leggi dissennate (modello reddito di cittadinanza), ma eccessivo. Così attacca il totem dei diritti acquisiti. Ha ragione e fa bene. Pronti a sostenerlo. Ma qui mi si consenta di avere meno sicurezze, giacché gli sarà difficile trovare qualcuno disposto a fare quel che è necessario. Non dimentichiamoci che la destra alzò le pensioni minime e la sinistra ha regalato gli 80 euro. Il partito della spesa pubblica è piuttosto ben attrezzato.

Come cambiare il limbo del lavoro

Come cambiare il limbo del lavoro

Tito Boeri – La Repubblica

Il Governo ha ottenuto un’ampia delega dalla Camera per riformare le regole del mercato del lavoro, dalle norme sui licenziamenti individuali agli ammortizzatori sociali, dall’introduzione di un salario minimo alla semplificazione delle tipologie contrattuali. Ora si appresta a chiedere la stessa delega al Senato. Ci si aspetterebbe da parte dell’opposizione, sia in Parlamento che nelle piazze, una richiesta pressante di chiarimenti da parte del governo su come intende esercitare questa delega, su cosa precisamente intende fare su materie molto importanti e delicate. Invece, gli oppositori si pronunciano solo su come meglio bloccare l’iter della riforma. Fino a ieri si parlava di un ricorso alla Corte Costituzionale per eccesso di delega. Ieri, Susanna Camusso ha addirittura minacciato il ricorso alla Corte Europea. Bene ricordare che l’incertezza sul quadro normativo è la peggiore nemica della creazione di lavoro.

Tenere ancora più a lungo il nostro Paese in un limbo, in cui non si sa quali saranno le regole del mercato del lavoro, significa fare aumentare ulteriormente la disoccupazione perché i datori di lavoro, in queste condizioni, rimandano le assunzioni in attesa di maggiori certezze sul quadro normativo. Inoltre, una Corte può al massimo ripristinare lo status quo e questo è tutt’altro che invidiabile. Il nostro mercato del lavoro è il peggiore d’Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività, formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l’elenco potrebbe continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente indifendibile. Certo non aiutano i continui attacchi del nostro Presidente del Consiglio al sindacato. Sembrano dettati dal tentativo di accreditarsi in Europa e in fasce di elettorato tradizionalmente ostili al sindacato. Non se ne sentiva proprio il bisogno dato che si stanno riformando le norme sui licenziamenti individuali, non quelle sui licenziamenti collettivi in cui il sindacato gioca un ruolo cruciale. Fatto sta che, invece di rendere partecipi gli italiani di un confronto anche acceso su come e cosa riformare concretamente per migliorare le cose, si cerca di arruolarli nelle piazze e nelle urne per uno scontro di potere all’interno del partito di maggioranza relativa.

Vediamo allora quali sono i punti chiave su cui si gioca la possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente. I decreti che seguiranno la legge delega dovranno ridurre l’enorme incertezza che oggi circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza del Pd ha ottenuto di creare un’asimmetria su come vengono trattati i licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. Come già discusso su queste colonne, questa asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare il contenzioso, dunque l’incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad aumentare questa incertezza, tranne chi esercita la professione forense. Perché l’opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all’azienda perché si è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece “ha dato il massimo”, ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un’impresa che, per colpe non sue, è entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di lavoro paga un’indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo? Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell’azienda presso cui lavora.

Un’altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un compenso orario minimo», ma solo per i settori dove non c’è contrattazione collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c’è un 13 per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni. Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?

C’è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C’è un modo per scoraggiare l’abuso di queste figure contrattuali senza magari eliminarle del tutto? E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle oggi previste dalla Legge di Stabilità?

Perché nessuno pone queste domande al governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e immigrate, che lavorano nel nostro paese? Sono, immaginiamo, questi i quesiti che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. L’altra faccia della medaglia delle felpe rosse della Fiom sotto la giacca è un assegno in bianco. Quello che sta concedendo al governo chi dichiara il proprio dissenso sul Jobs Act, evitando di incalzare l’esecutivo su queste scelte fondamentali per il futuro del lavoro in Italia.

La terza recessione del Paese malato

La terza recessione del Paese malato

Tito Boeri – La Repubblica

Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini cileno-re di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla. Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti imprenditoriali.

Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.

Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.

C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’ efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.

Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portandola fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.

Tre regole per restare in Europa

Tre regole per restare in Europa

Tito Boeri – La Repubblica

Matteo Renzi si vanta spesso di avere cambiato l’atteggiamento dell’Italia in Europa. L’Italia è forse il paese fondatore maggiormente assente dall’arena comunitaria negli ultimi 15 anni, avendo giocato un ruolo marginale nella costruzione delle istituzioni europee. Quindi di un cambio di passo ci sarebbe bisogno. E quale migliore occasione del semestre italiano per metterlo in atto? Non passa giorno senza che ci sia, in effetti, qualche scontro istituzionale fra il governo italiano e la Commissione Europea. Ma l’impressione è che lo stile aggressivo, “confrontational”, adottato da Renzi, ci condanni alla stessa marginalità dell’atteggiamento passivo adottato dai governi precedenti.

Potrà forse la rissosità servire a raccogliere consensi in Italia, trovando un comodo capro espiatorio, ma non ci permette di meglio tutelare i nostri interessi e soprattutto quelli che sono convergenti con gli interessi dell’Unione Europea nel suo insieme. Le organizzazioni complesse, e ancora più quelle intergovernative, procedono per aggiustamenti marginali e si chiudono a riccio quando aggredite. Chi, come noi, è in una posizione contrattuale debole può costruire coalizioni vincenti solo rendendosi credibile come rappresentante di interessi più vasti di quelli del proprio paese. Purtroppo i resoconti degli incontri comunitari sono di tutt’altro tenore. E soprattutto tre esempi recenti sono sotto gli occhi di tutti.

Il primo è quello del cammino della legge di stabilità. La Commissione Europea ci ha imposto di dimezzare il contenuto espansivo della nostra legge di bilancio, facendoci ridurre l’aumento del disavanzo nel 2015 da 11,3 a meno di 6 miliardi. Ora, a una sola settimana dal via libera concesso dal vice-presidente Katainen alla legge di stabilità così “dimezzata”, sono arrivate le previsioni della Commissione che prefigurano la richiesta a breve di un’altra correzione di circa 3 miliardi in quanto l’indebitamento strutturale migliorerebbe solo dello 0,1 per cento rispetto al 2014, in luogo dello 0,3 previsto. Legittima la frustrazione di chi deve affrontare il confronto parlamentare su di una manovra che deve costantemente ripartire da capo, come nel gioco dell’oca, con tempistiche che per di più non hanno alcun rispetto per il dibattito parlamentare. Ancora più grave il fatto che la Commissione ci chieda di fatto di annullare il contenuto espansivo della manovra di fronte a un peggioramento della congiuntura. Ma presumibilmente nella situazione dell’Italia si potevano trovare molti altri paesi. Se avessimo fatto presente questi problemi di calendario a tempo debito, avremmo potuto evitare queste incongruenze.

Potevamo anche incidere sul contenuto delle raccomandazioni, che oggi comportano un avvitamento in negativo, con manovre sempre più restrittive e revisioni al ribasso delle stime di crescita. Bastava mettere in discussione il modo con cui vengono stimati parametri cruciali nelle raccomandazioni della Commissione e come vengono interpretate queste stime. Il problema, in soldoni, è che la Commissione attribuisce una parte eccessiva della caduta del reddito in Italia a fattori strutturali, anziché legati alla congiuntura negativa. Questo significa che non abbiamo grandi giustificazioni per politiche espansive anticicliche. Come spiegano Cottarelli e altri sulavoce.info, bastano variazioni di pochi decimali di queste stime, ad esempio allineando quelle della Commissione alle stime dell’Ocse e del Fondo monetario, per legittimare il via libera a manovre molto più espansive di quella che saremo costretti a mettere in atto seguendo i dettami della Commissione. I dati utilizzati a Bruxelles a supporto di queste stime sono poi discutibili: ad esempio, attribuiscono alle ore di cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali. Perché allora il nostro paese non ha contestato fin dall’inizio questi metodi, perché non ha chiesto che le ipotesi e i dati su cui si reggono gli scenari della Commissione venissero resi maggiormente trasparenti, creando un organismo tecnico in grado di valutare i margini di errore cui sono soggette le stime dei modelli e di segnalarne i limiti alle autorità comunitarie? Nessun paese ha interesse a entrare in una specie di lotteria, in cui per via di un decimale di troppo o di meno si rischia di dover riscrivere una legge di bilancio. Non è questione di cambiare i trattati. Né c’è bisogno di rimettere in discussione le regole. Basta ridiscutere il modo con cui vengono messe in atto, per il bene di tutti.

Il secondo esempio è quello degli stress test sul sistema bancario, che si sono conclusi a fine ottobre. Messaggio devastante per la credibilità del nostro sistema bancario e per la stessa Banca d’Italia in quanto siamo il paese in cui il patrimonio iscritto a bilancio dagli istituti di credito sarebbe il più lontano dalla realtà. Anche in questo caso c’è stata una levata di scudi perché gli stress test sarebbero stati troppo penalizzanti nei confronti delle banche italiane e troppo generosi nei confronti di quelle tedesche per via del fatto che hanno valutato in modo eccessivamente benigno i derivati in pancia a Commerzbank e Deutsche Bank. Giuseppe Guzzetti, che ha coalizzato le fondazioni bancarie contro gli aumenti di capitale a Siena e Genova, impedendo che Monte dei Paschi e Carige si rafforzassero patrimonialmente in vista degli stress test, ha avuto parole di fuoco contro la revisione degli attivi bancari da parte della Bce. Ora, ammesso e non concesso che i test fossero artatamente sbilanciati a favore della Germania, dove erano le nostre autorità di vigilanza, i tecnici del nostro ministero dell’economia, quando queste regole sono state discusse e adottate?

L’impressione è che il nostro governo, che si lamenta spesso per la burocrazia di Bruxelles, dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di dotare il nostro paese di una burocrazia adeguata. Altri episodi recenti, non comunitari, certificano questa assoluta necessità. Pensiamo al caso dei test di medicina, di cui alle cronache di questi giorni, destinato a lasciarci uno strascico di ricorsi per molti anni a venire (viaggiando su Internet si trovano siti di avvocati che si offrono di preparare ricorsi con tariffe leggermente superiori alle quote di iscrizione ai corsi di laurea). Sorprende che nessuno abbia posto il seguente interrogativo: perché il ministero dell’Università e della Ricerca deve concedere un potere di monopolio assoluto a un ente privato, come Cineca, che non sembra contemplare procedure di controllo ex ante dei test somministrati agli aspiranti medici? E perché non è in grado di gestire al suo interno anche le banche dati che raccolgono le informazioni sulle carriere dei docenti universitari?

Il cambio di passo dell’Italia a livello comunitario dovrebbe infine comportare una maggiore presenza del nostro paese sui temi più importanti di cui si dibatte anche al di fuori del Club Med, il circolo dei paesi del Sud. Di qui il terzo esempio. Si sta consumando in questi giorni uno scontro molto acceso fra Angela Merkel e David Cameron che vorrebbe imporre tetti alla mobilità dei lavoratori comunitari all’interno dell’Unione. Quello della libera circolazione è un principio basilare, fondamentale da presidiare soprattutto all’interno di una unione monetaria. Il nostro paese potrebbe essere alleato di Juncker e della Germania in questa battaglia a difesa della mobilità del lavoro, difendendo un bene molto importante per i paesi che hanno la disoccupazione più alta. Non mi sembra, tuttavia, di avere udito pronunciamenti del governo italiano a riguardo. Mi auguro di essermi sbagliato.

Il tfr di Pantalone

Il tfr di Pantalone

Tito Boeri – La Repubblica

In queste ore il governo sta decidendo se varare l’operazione Trattamento di fine rapporto in busta paga. Nell’ambito di una legge di stabilità che si annuncia di basso profilo (solo 5 miliardi dalla spending review al posto dei 20 annunciati!), questo potrebbe essere l’unico provvedimento di un certo rilievo. Servirebbe per rilanciare i consumi rimpinguando gli 80 euro in busta paga. Il tutto con effetti contenuti sul disavanzo, destinato già ad aumentare fino a sfiorare il vincolo “invalicabile” del 3 per cento. Insomma, sembra la famosa quadratura del cerchio. Purtroppo non è così. Prima di spiegare perché e cosa si può fare in alternativa, bene chiarire quali sono le ipotesi allo studio, scusandoci in anticipo col lettore perché sono molto complicate.

Il Tfr lasciato in azienda è una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Le aziende maggiormente coinvolte in questa operazione hanno meno di 50 dipendenti e sono quelle che hanno più problemi di accesso al credito. Per evitare di sottrarre loro liquidità, il governo intende chiedere alle banche di versare questi soldi ai lavoratori utilizzando a tal fine i fondi presi a prestito dalla Bce a tassi TL-TRO cioè uLTRavantaggiosi, diventando così creditrici delle imprese, al posto dei lavoratori. Si pensa inoltre di dare ai lavoratori la facoltà di scegliere se incassare questi soldi oppure lasciarli in azienda o presso il fondo istituito presso l’Inps per replicare i rendimenti del Tfr. Non avrebbero invece questa facoltà i lavoratori che hanno dirottato il trattamento di fine rapporto verso la previdenza integrativa.

Il Tfr esiste dal 1942 e non è certo la prima volta che un governo accarezza l’idea di cambiarne la destinazione d’uso per sostenere la domanda. Ma questa volta si fa sul serio e proprio a ridosso di una riforma che ha deciso che il Tfr doveva servire per alimentare la previdenza integrativa. Di più, i lavoratori che hanno messo i soldi in fondi pensione, seguendo i suggerimenti degli stessi partiti che oggi appoggiano Renzi, sono trattati peggio. Infatti non viene loro offerta la possibilità, concessa invece agli altri lavoratori, di attingere a questi accantonamenti, in caso di bisogno. Perché li si esclude? Apparentemente per non contraddire troppo la riforma del 2007. Ma ci si dimentica che questa scelta spingerà altri lavoratori a non alimentare col Tfr la previdenza integrativa. La liquidità è un bene prezioso, soprattutto di questi tempi. La prospettiva di investimenti molto liquidi rischia di dissuadere i giovani, destinati ad avere pensioni pubbliche molto più basse di chi si ritira oggi dalla vita attiva, dall’investire nella previdenza integrativa. In un Paese che ha smesso di crescere, la previdenza integrativa è ciò che può tutelare le pensioni future dei giovani. Negli ultimi 13 anni i fondi negoziali hanno offerto un rendimento cumulato nominale del 49% contro il 30% circa offerto dai contributi alle pensioni pubbliche; negli ultimi 3 anni, poi, il rendimento più basso offerto da un fondo pensione negoziale è stato del 4,5% (comparto garantito), mentre i contributi previdenziali sono stati virtualmente capitalizzati a meno dell’1 per cento.

Non pochi lavoratori che hanno sin qui optato per tenere il Tfr in azienda lo hanno fatto perché il trattamento di fine rapporto è un deterrente ai licenziamenti. Un’impresa che deve scegliere chi licenziare presumibilmente opterà per il lavoratore al quale non deve versare la liquidazione, soprattutto se le imprese faticano a finanziarsi. Coinvolgendo un terzo attore, le banche, che dovrebbero ereditare il debito dell’impresa verso il lavoratore, questo deterrente, che risponde alla logica delle compensazioni monetarie a chi perde il lavoro anziché della reintegra che il governo intende abolire, viene a cessare. Il tutto in virtù di un sostegno pubblico, non di un accordo fra una banca e un’impresa privata. Infatti il governo, per invogliare le banche a partecipare a questa operazione, dovrà offrire loro la garanzia che, in caso di fallimento dell’impresa, sarà Pantalone a farsi carico del debito contratto dall’azienda nei confronti dell’istituto di credito. È una garanzia che rischia di essere molto costosa perché saranno soprattutto i lavoratori di imprese che stanno per portare i libri in tribunale a optare per incassare subito il Tfr.

Per queste ed altre ragioni (ricapitolate su lavoce.info) non si vede perché mettere in piedi un’operazione intricata – che coinvolge banche, Bce e Cdp – per modificare nuovamente le norme sulla previdenza integrativa rendendole (credevamo non fosse possibile) ancora più complesse di prima. Il tutto con il rischio di apparire come un governo che non esita a rendere più facili i licenziamenti e ad approfittare delle documentate scarse capacità degli italiani di pianificare i loro risparmi, pur di incassare tasse più alte dal Tfr (il prelievo su rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell’11,5% mentre il Tfr in busta paga verrebbe tassato mediamente al 23%). Se, come crediamo, il vero intento dell’esecutivo è quello di sostenere la domanda, bene che sia consapevole del fatto che i soldi dati in busta paga verranno spesi solo se percepiti non come un dono effimero, destinato a essere ripagato un domani con tasse più alte, ma come un aumento permanente del reddito disponibile. Con tutta la buona volontà, è difficile credere che un’architettura così bizantina come quella allo studio possa reggere nel tempo.

Se proprio si vogliono mettere più soldi in busta paga, meglio piuttosto ridurre i contributi dei lavoratori dipendenti all’Inps. Si può, ad esempio, abbassarli di cinque punti, portandoli ai livelli del lavoro parasubordinato. Servirà anche a riequilibrare il sistema previdenziale tra pubblico e privato. Non è un’operazione che aumenti il debito pubblico perché ormai tutti versano in un sistema contributivo in cui minori entrate oggi nelle casse dell’Inps saranno un domani compensate da spese più basse. La Commissione Europea, che ha più volte elogiato il nostro sistema contributivo lamentando semmai il fatto che sia entrato in vigore troppo tardi, potrà accettare un disavanzo oggi più alto che viene automaticamente coperto da minori disavanzi futuri. Tra l’altro, tagliando in modo equo le pensioni più alte per fiscalizzare i contributi dei lavoratori con salari più bassi, come già proposto su queste colonne, si otterrà il duplice effetto di contenere gli effetti temporanei sul deficit e salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto in modo sostenibile, dunque credibile, e senza mettere di mezzo la Cassa Depositi e Prestiti.

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Tito Boeri – La Repubblica

La mediazione via sms all’interno del Partito Democratico, di cui ha dato conto questo giornale sabato scorso con il testo dei messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.

La direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda. In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato. Vediamo di capire perché.

Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa). Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari. Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente. Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.

Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso. Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici. Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.

A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere rassicurato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge. Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”. Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.

È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms. Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Chi ha svuotato la spending review

Chi ha svuotato la spending review

Tito Boeri – La Repubblica

In un Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili. Nessuno sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile. I precedenti di analoghe spending review condotte in Paesi con una struttura decisionale più decentrata della nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.

Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse. Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica è bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza. La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento a Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review. C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto. Un grande passo in avanti che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.

Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo. Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del Titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso può impedire che l’operazione fallisca come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.