Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.
Due settimane cruciali per la politica economica italiana ed europea. Quella che sta per concludersi è stata dominata dalle tematiche del lavoro. In Italia, si è arrivati, non senza tormenti, all’approvazione da parte del Senato della legge quadro sulla regolamentazione di base dei rapporti di lavoro, che prevede un’ampia e per alcuni aspetti poco chiara delega al Governo. A livello europeo, la conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenuta a Milano l’8 ottobre ha riguardato i problemi occupazionali nell’UE. In ambedue i casi si è fatto molto chiasso senza concludere un granché.
Ma se ci aspettavamo ‘molto rumor per nulla’ dalla conferenza europea (un’occasione essenzialmente mediatica da cui non si attendavano risultati concreti), ben altre erano le aspettative riposte dagli osservatori sulla legge quadro sul lavoro. E invece, alla prova dei fatti, la sua sostanza è stata essenzialmente ‘delegata’ a decreti ancora da predisporre e per i quali sono stati dati principi e criteri estremamente laschi. Il vivace dibattito in Senato (con il contemporaneo ricorso al voto di fiducia) è così servito all’esecutivo essenzialmente per ‘fare ammuina’ in occasione della conferenza europea: da un lato per dare l’impressione che qualcosa si stia facendo sul piano delle riforme strutturali relative all’economia reale; da un altro, sopratutto, allo scopo di distrarre sia all’interno sia all’estero dal duro lavoro necessario in questo fine settimana e nei primi giorni della prossima per mettere a punto il disegno di legge di stabilità con una ‘manovra’ di almeno 20 miliardi che impedisca che l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni salga oltre 3% del Pil, quanto meno nel preventivo del bilancio e dei conti pubblici. Un obiettivo che, stando ai rumor che provengono dal Palazzo, sarebbe ancora molto lontano.
Hanno ‘fatto ammuina’, e molto volentieri, anche i nostri partner europei (i quali, con l’eccezione di Hollande, avrebbero volentieri evitato un viaggio a Milano per una breve riunione inconcludente a quindici giorni circa da un Consiglio Europeo in cui la crescita dovrebbe essere all’ordine del giorno). Per ingraziarsi l’opiste, tutti hanno pensato di dare grandi pacche sulle spalle al Presidente del Consiglio italiano, dispensandogli sorrisi di incoraggiamento. Non solo. A Matteo Renzi è stata fatta anche balenare la possibilità (non la probabilità, e ancor meno la certezza) di non contabilizzare il cofinanziamento ai progetti europei ai fini dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. Un ammiccamento che non è costato loro grande sforzo, dal momento che uno studio di Chatham House, che verrà presentato la settimana prossima a Londra, conclude che in Italia i ‘progetti cantierabili’ si contano sulle dita di una mano. Ed è facile pronosticare un repentino cambiamento di clima quando la prosisma settimana prossima la nostra legge di stabilità giungerà a Bruxelles, sottoposta a un esame molto rigoroso e niente affatto benevolo.
La verità è che in Europa tutti già conoscono la dura realtà con cui si devono misurare tanto Palazzo Chigi quanto via XX Settembre: restare entro il tetto di un indebitamento della pubblica amministrazione del 3% del Pil è poco più di una finzione. Già alla prima ‘trimestrale di cassa’ si annunceranno sforamenti, accusando ‘il destino cinico e baro ’. A fine 2015, il disavanzo sarà probabilmente attorno al 5% del Pil, non molto differente da quello della Francia. Uno scenario che ci vedrà fatalmente sottoposti alle procedure di infrazione da parte della tanto aborrita troika: Banca centrale europea (Bce), Commissione Europea (CE) e Fondo monetario internazionale (Fmi).
Ma se tutti sanno già tutto, perché insistere in questo pirandelliano ‘gioco delle parti’? In 15 mesi – si spera – si può varare una nuova legge elettorale ed andare alle urne. Peccato che in Italia nessuno voglia farlo. E i partner europei temono il caos di elezioni politiche in Italia (con una normativa in parte dichiarata non conforme alla Costituzione) poiché le analisi disponibili considerano il nostro Paese come il più ‘contagioso’, dopo la Spagna, sui mercati europei.