Meno salvataggi, più investimenti
Enrico Cisnetto – Il Messaggero
Michele Ferrero è stato un imprenditore senza eguali. E non solo perché ha costruito un gigante mondiale dell’industria dolciaria, grazie solo alle sue intuizioni e alle sue proverbiali doti di laboriosità e tenacia. Ma, anche, perché ha fatto tutto questo rifuggendo dai salotti e salottini del capitalismo relazionale e dalle suggestioni della finanza creativa, optando per una visione dell’impresa che cresce in complicità con i dipendenti e il territorio – offrendo loro, negli anni del conflitto di classe, un Welfare sui generis – e affonda le radici nel rapporto di fiducia tra i suoi prodotti e il consumatore.
Pensavo a questa unicità quando, nei banchi della cattedrale di Alba, partecipando al suo funerale, osservavo che tra le tante personalità venute a rendergli omaggio ci fossero meno imprenditori famosi di quanto sarebbe stato doveroso che fosse. E mi è venuto spontaneo rimuginare le pagine dell’ultimo libro di Giuseppe Berta (La via del Nord, Il Mulino), nel quale lo storico dell’economia dice di aver perso ogni residua speranza che gli imprenditori settentrionali riescano ad adattare il vecchio triangolo industriale all’economia del nuovo millennio. E mi è venuto di pensare che non saprei fare un nome di chi, oggi, potrebbe portare un’azienda dalla dimensione locale a quella mondiale, senza passare né per la Borsa né per acquisizioni, come ha fatto Ferrero. Non è un caso che le esportazioni agroalimentari italiane siano inferiori a quelle tedesche: in questa filiera, come in quasi tutto il manifatturiero, l’Italia, a differenza della Germania, non ha puntato sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sull’innovazione dei prodotti e dei processi, sul trasferimento di conoscenze ai lavoratori. E non è un caso che il nostro export copra meno di un terzo del pil, mentre quello tedesco oltre la metà.
Purtroppo la politica industriale italiana degli ultimi anni è consistita esclusivamente nel salvare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti, in una forma di patologico accanimento terapeutico. Nonostante che dal 2008 ad oggi siano fallite 82mila imprese (con la perdita di un milione di occupati) e si sia bruciato il 25% della capacità produttiva, nuove Ferrero all’orizzonte non sono spuntate. Anzi, ogni anno sono nate sempre meno imprese (nel 2013 -11,1% rispetto al 2007). Perciò vanno nella giusta direzione le misure dell’Investment Compact che allargano per le start-up le agevolazioni legate al concetto di innovazione, comprendendo anche quella non tecnologica; meno quelle che prevedono la creazione di una società per le ristrutturazioni industriali.
Non ci servono salvataggi ma investimenti massicci (anche pubblici) per colmare i buchi di un capitalismo sempre più a macchia di leopardo, con poche eccellenze di nicchie e troppi vuoti nei settori più strategici. Occorre progettare il riposizionamento del nostro sistema produttivo. Avendo coscienza che, visto il nostro declino, da soli non possiamo farcela. Per fare la rivoluzione industriale abbiamo bisogno della grande finanza mondiale – avendo cura di selezionarla, non tutti gli investitori sono uguali – e di alleanze industriali strategiche e solide in Europa. Possibilmente tenendo conto delle scelte geopolitiche che i grandi nodi dello scacchiere mondiali (Grecia, Libia, Russia-Ucraina) comunque ci imporranno di fare.