Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.