tonia mastrobuoni

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Dopo sei anni di recessione e quattro di durissimi aggiustamenti dei bilanci, la Grecia ha presentato ieri una finanziaria che conferma una stima di crescita dello 0,6% per quest’anno e addirittura del 2,9 % per il 2015. Soprattutto, in virtù delle correzioni dei conti degli ultimi anni, il ministro delle Finanze Gikos Hardouvelis è certo di raggiungere quasi il pareggio di bilancio l’anno prossimo (un disavanzo dello 0,2%) – il primo da oltre quattro decenni. E il vero indicatore dello stato di salute delle finanze pubbliche, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito), schizzerà nel 2014 al 2 e l’anno prossimo addirittura al 2,9%.

Cifre che per il governo Samaras significano che l’uscita dal programma di salvataggio Ue-Fmi potrebbe essere anticipato di oltre un anno, alla fine del 2014 invece che all’inizio del 2016. Un impegno che libererebbe Atene dalla morsa della troika Fmi-Bce-Ue ma che potrebbe costare ai greci anche 12 miliardi circa di aiuti. Il Tesoro ha intenzione, stando alla finanziaria, di emettere un’obbligazione a dieci e una a sette anni il mese prossimo, oltre ad un bond a breve (26 settimane). La scorsa settimana, dopo che la Bce ha annunciato l’avvio di un vasto programma di acquisti di titoli cartolarizzati Abs che includerà anche quelli con rating bassi, se provenienti da Paesi sotto programma come la Grecia e Cipro, i rendimenti sui bond sovrani greci sono crollati. Atene è tornata sul mercato, dopo quattro anni di assenza, all’inizio di quest’anno con un’obbligazione a sette anni.

«Il Paese sta entrando in un lungo periodo di crescita sostenibile e avanzi primari di bilancio, che daranno una spinta all’occupazione, taglieranno la disoccupazione e aumenteranno la qualità della vita a molti cittadini» ha dichiarato ieri il viceministro alle Finanze, Christos Staikourias, aggiungendo che «questo è il risultato di sacrifici senza precedenti. Faremo in modo che non siano stati vani». La disoccupazione raggiungerà quest’anno ancora cifre spaventose – il 24,5% – ed è prevista in calo l’anno prossimo al 22,5. Ma con l’aria da crisi di governo che tira ormai da mesi ad Atene, il governo Samaras ha incluso nella manovra anche una robusta riduzione delle tasse sul combustibile da riscaldamento – il 30% – e un taglio dell’imposta cosiddetta «di solidarietà» sopra i 12mila euro. Da oggi la finanziaria sarà discussa in Parlamento, venerdì è previsto il voto di fiducia ma Samaras può contare su soli quattro parlamentari di scarto rispetto all’opposizione.

Una partita sul filo del rasoio aggravata da uno scenario ancora più complesso che rischia di materializzarsi all’inizio dell’anno prossimo, quando sono previste le elezioni presidenziali. Samaras avrà enormi difficoltà a mettere insieme i 180 deputati su 300 che servono per eleggere il presidente della Repubblica. Se dovesse fallire nell’intento, la legge prevede elezioni anticipate. E i sondaggi attuali danno Syriza, il partito dell’eurodeputato Alexis Tsipras, in netto vantaggio sui conservatori: la forbice tra la sinistra radicale e Nea demokratia varia dai 2,5 agli 8 punti. Abbastanza per vincere e conquistare il generoso premio di maggioranza greco di 50 deputati, ma non abbastanza per governare da solo.

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

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Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.