Occupazione, il governo non aspetti
Luca Ricolfi – La Stampa
Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. È già qualcosa.
Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.
C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera.
E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.
Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo? Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara.
È questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.