Occupazione, tante fratture da risanare
Walter Passerini – La Stampa
Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.
C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.
La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.
Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.