Perché siamo gli ultimi della classe
Mario Deaglio – La Stampa
Perché mai quando il resto del mondo ricco si prende il raffreddore, l’Italia rischia la polmonite? Perché mai, gli altri Paesi fanno passi avanti, sia pure con fasi alterne, sulla via della ripresa mentre l’Italia si conferma sempre l’ultima della classe, pur avendo fatto molti sforzi negli ultimi anni? Questo interrogativo è riproposto con forza da una discesa superiore alle attese del prodotto lordo italiano. Indebolisce l’euro sui mercati finanziari, pone fine alla «luna di miele», breve oltre che tempestosa, tra governo e Paese, si riflette immediatamente sulle valutazioni che la finanza internazionale compie sul debito pubblico italiano, facendo aumentare il temutissimo «spread», vero termometro della nostra debolezza.
Per cercare un risposta occorre separare i dati dalla retorica dello sfascio. Tenendo anche conto dell’imprecisione delle misurazioni statistiche, i dati confermano un quadro di stagnazione assai più che denunciare un grave peggioramento; l’economia italiana non sta affondando. Si tratta però di un vecchio barcone che galleggia a fatica, pur presentando al suo interno segnali di ripresa, differenziati tra settori e regioni, che non riescono a rafforzarsi in maniera decisiva. La domanda interna ha tenuto e il rallentamento dell’economia deriva pressoché esclusivamente dal rallentamento delle esportazioni che ci hanno mantenuto a galla per tanto tempo. Non bisogna cedere a suggestioni troppo negative, alle reazioni a caldo di mercati finanziari che hanno sbagliato troppe volte. Tutto questo è corretto, ma sarebbe superficiale e anche irresponsabile cavarsela così. Ci sono alcune lezioni sgradevoli che il governo e l’opinione pubblica devono meditare.
La prima lezione è che la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani. Le famiglie italiane – nel loro complesso e tenendo conto di situazioni di crescente disagio reale – hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere. Preferiscono invece aumentare i risparmi perché influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche. Le riprese vere non avvengono per magia. Non si può pretendere che quelle riforme approvate dopo vent’anni di immobilismo agiscano in circa trenta settimane di un nuovo governo. Si tratta di un processo lungo e duro che oltre ai tecnicismi richiede l’ottimismo. Senza ottimismo, senza progettualità, senza piani aziendali e piani di vita personali è difficile che ci sia davvero una ripresa che vada al di là di un rimbalzo tecnico. Il governo deve prendere atto che, pur avendoci provato e pur godendo di un largo e sostanziale consenso, quest’ottimismo non è (ancora?) riuscito a suscitarlo.
La seconda lezione è che le cose non si cambiano con sforbiciate più o meno lineari sulla spesa pubblica e con la distribuzione a pioggia di piccoli benefici fiscali. Le cose cambiano davvero solo se esistono vere politiche di cambiamento: lo sapeva anche la signora Thatcher che, con tutto il suo iper liberismo, impostò con decisione alcune linee guida per lo sviluppo dell’economia britannica. Queste linee sono carenti nel programma del governo – che ha dato prova in questi giorni di voler tornare ad antiche abitudini di spesa che sono alla base del nostro debito pubblico – ma, quel che è peggio, sono pressoché totalmente assenti nel dibattito politico. Non possiamo rilanciare davvero l’economia se non abbiamo un’idea, per quanto approssimativa, del tipo di Paese che vorremmo che l’Italia diventasse tra dieci o vent’anni e se non la perseguiamo con coerenza e decisione.
La terza lezione è che questi cambiamenti sono intrinsecamente dolorosi, proprio perché sono dei cambiamenti. L’esperienza politica – e in particolare quella parlamentare – dell’ultimo anno mostra una grande diffusione della convinzione che i cambiamenti devono soprattutto riguardare gli «altri». Per non modificare la propria situazione – giusti o sbagliati che siano i cambiamenti proposti – piccole categorie di lavoratori sono disposte a bloccare tutto, come si è visto con un’importante prima teatrale e con il servizio bagagli dell’aeroporto di Fiumicino. Se non si è disposti a cambiare non si riparte. È questa la vera lezione dei brutti dati economici del secondo trimestre.