Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi
Renato Brunetta – Il Giornale
Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).
La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.
Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.
Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).
Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.
L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».
Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.
Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.