La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga
Roberto Sommella – Europa
C’è una fiducia molto più importante di quella posta al senato dal governo per la riforma del lavoro: è la sicurezza del futuro che milioni di italiani chiedono dopo anni di crisi.I lavoratori sono davvero pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche, capaci di mettere da parte ancora oggi ben 8.000 miliardi di euro? Sta tutto nella soluzione di questo rebus il senso della mossa dell’esecutivo di Matteo Renzi di mettere in busta paga il Tfr. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa.
Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi che stanno trasformando la nostra società: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del Pil che comporta minori pensioni future e di conseguenza maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi. Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non solo non beve ma sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi di euro andati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si stanno tramutando in maggiori prestiti. Tutt’altro. I nostri concittadini, evidentemente chi può, tengono a mantenersi molto liquidi, in banca o addirittura a casa.
Prova ne è che dal 2007 ad oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti sia aumentato del 9,2% per un totale di 234 miliardi di euro. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Trattamento di fine rapporto, che quest’anno ammonterà in 26,9 miliardi di euro (9,8 parcheggiati presso le imprese, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti verso i fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che avrebbero più da rimetterci perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese. E se così non fosse? Qui si tratta della vita delle persone, non solo di utilizzare un bonus come gli 80 euro. Hanno più paura del presente o del futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione.
A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Per il 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28% per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre, a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole usare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più, rinunciando alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ha calcolato Milano Finanza, da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%. Ma nonostante questo le adesioni non sono mai decollate e oggi solo un quarto degli occupati è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e le donne, proprio quelli più bisognosi di un’integrazione e più colpiti da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto.
L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del Pil. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come in questi anni, si avrà una rendita minore. Qualche esempio: lavoratori trentenni, dipendenti ed autonomi, che lasceranno l’attività a 68 anni e 9 mesi, avranno una pensione pari, rispettivamente al 64% e al 46% dell’ultimo stipendio se il Pil crescerà dell’1,5%; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% e al 38% dell’ultima busta paga se il Pil si fermerà al +0,5% (più o meno quanto viene stimato nel 2015). Non solo. Con più soldi in busta scenderanno, per chi li ha, anche le pensioni di scorta fino al 20% in meno se l’operazione durerà tre anni, perché i contributi cesseranno.
La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La risposta, con un mese di stipendio in più a disposizione, sarà più spese famigliari o più previdenza integrativa? È una scelta, anche patriottica, quella che gli italiani si troverebbero a dover fare se andrà in porto, con tutte le precauzioni e le garanzie bancarie per le Pmi, il progetto Tfr: destinare al proprio benessere e quindi all’Italia una quota del salario, facendo ripartire l’economia, oppure richiudersi ancora di più nel formicaio in attesa di tempi migliori. Questi calcoli, che sembrano complicati, gli italiani sanno farli molto bene. Il governo ha avuto coraggio, bisogna vedere se l’avranno anche i governati.