Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730
Riccardo Scarpa – Il Tempo
Quando lo scorso marzo Matteo Renzi si presentò con le famose slides e con il «venghino signori, venghino…» non pochi ebbero la sensazione che palazzo Chigi si fosse improvvisamente trasformato in un supermercato del prendi tre e paghi due. Ma il giovanotto, che da pochi giorni aveva fatto fuori Enrico Letta, riscosse simpatia e forse anche tenerezza. Vuoi vedere che questa volta svoltiamo veramente? Eravamo, e siamo, talmente con il sedere a terra che un po’ tutti diventammo speranzosi in un miracolo improbabile. Quattro riforme in quattro mesi, 80 euro in busta paga, nuova legge elettorale, abolizione delle province, lotta agli sprechi, un simbolico calcio nel deretano dei burocrati europei, gliela faccio vedere io alla signora Merkel. E ieri l’ultima «trovata»: ai cittadini arriverà il 730 precompilato. Tutto facile? No, perché per le detrazioni delle spese mediche bisognerà per forza modificarlo. Quindi rimetterci le mani.
Renzi si presentò a Strasburgo come Telemaco che ha ritrovato il padre Ulisse, pronto con lui a infilzare i Proci che avevano dissipato le sue ricchezze e insidiato la fedele consorte, in questo caso l’Italia. Da presidente di turno della Ue si è ritrovato con la Mogherini commissaria per gli affari esteri, carica del tutto ininfluente nelle decisioni che contano, ma è costantemente sotto gli sguardi severi dell’Europa che decide davvero e che con ipocrita, ma fermissima eleganza, gli ricorda ormai quotidianamente di fare meno chiacchiere e finalmente più fatti. È così che l’annuncite di Renzi è diventata il brand di un governo che promette molto, ma realizza poco.
Quando si scivola nell’annuncite? Quando difetta la coerenza, si fanno fuochi d’artificio. Un giorno Jobs Act, quello dopo riforma del Senato, l’altro ancora riforma della scuola, ma senza un programma di sistema. Tra hashtag, proclami e minacce di ricorso al voto, sono passati sei mesi da quel 22 febbraio in cui nasceva l’esecutivo del segretario Pd e adesso è il momento dei primi bilanci. Il rottamatore ha incassato il decreto Irpef e la riforma del Senato, ma i problemi arrivano quando si parla di numeri: dalla crescita al Jobs Act tutto da definire. E poi i debiti della Pa, il piano scuole e il deficit. Renzi ha azzardato numeri e date. Come quando disse di poter toccare una crescita del 2%. Fondo Monetario, Ocse e agenzie di rating gli hanno fatto sapere che se nel 2015 il pil italiano crescerà dello 0,5 per cento, sarà il grasso che cola che Renzi vorrebbe prosciugare nei bilanci dei vai ministeri con i prossimi tagli, molto lineari, come quelli di Tremonti.
Il Jobs Act, che sta prendendo corpo in queste ore e che dovrà affrontare non poche tempeste, se va bene non sarà operativo prima della metà 2015. La burocrazia, intanto, incaglia i debiti della Pa. Si è scoperto che dei 29 miliardi di euro saldati alle imprese creditrici dello Stato, circa 27 furono erogati dal governo di Enrico Letta. I 68 miliardi promessi sono restati un miraggio. In tema di edilizia scolastica, lo scorso marzo, mese di slides, il presidente del Consiglio aveva annunciato un piano per la scuola da 3,5 miliardi, assicurando che già dall’estate del 2014 sarebbero stati aperti 7 mila cantieri, per un valore di 2,2 miliardi. Per ora, i soldi spendibili ammontano a soli 550 milioni. La cassa in deroga doveva finire, ma è stato necessario rifinanziare gli ammortizzatori, perché i soldi erano già stati spesi. E i sussidi universali? Rinviati a data da destinarsi. Sembra il gioco delle tre carte, anzi una serie di «supercazzole»: spostare i soldi da una parte all’altra in una rincorsa all’emergenza che non conosce fine. Certo, qualcosa è stato fatto. Il ddl Del Rio ha modificato le Province, anche la sforbiciata sul costo dell’energia per le imprese è arrivata, l’addio al bicameralismo perfetto è più vicino, pur se la strada è ancora lunga e impervia, ma i risultati sono lo stesso insoddisfacenti, perché Renzi continua ad annunciare, senza mai sostituire il «faremo» con lo «stiamo facendo». Un po’ come Berlusconi, che pure delle ragioni le aveva, accerchiato com’era in Italia e in Europa. Renzi le ragioni se le costruisce da solo, ma non conclude lo stesso.
Cosicché, tutta l’insorgente delusione che ormai si fa strada negli italiani, è riassumibile nella slide delle auto ministeriali messe in vendita lo scorso febbraio. L’imbonitore Renzi ne voleva vendere 85, ne ha piazzate due o tre. Gli italiani incassano tutto, ma chiedere loro di acquistare dei catorci blindati che bevono due litri di benzina solo con la messa in moto, è davvero troppo.