La strada sbagliata
Alberto Bisin – La Repubblica
E così il Paese è in recessione, dice l’Istat: -0,2% nel secondo trimestre. Non è vero, come ha dichiarato il primo ministro Renzi, che «la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». Cambia moltissimo. Ma è vero che gli ultimi dati Istat poco aggiungono a chiarire la drammaticità conclamata della situazione economica del Paese. L’economia italiana è bloccata e non accenna a ripartire. Ma questo è vero da molti anni, ben prima della crisi, di Renzi, di Letta e di Monti. La verità è che il governo Renzi ha preso in mano una patata bollente e complessa. Lo ha fatto con grande energia mandando segnali contrastanti sulle linee di politica economica che avrebbe intrapreso. Questo ha dato qualche speranza che il governo riuscisse a trasmettere con successo il proprio ottimismo, attraverso politiche nuove ed incisive, anche se necessariamente, in un primo tempo, di portata limitata come gli 80 euro. Segnali positivi in un contesto in cui le economie del resto del mondo stanno iniziando a muoversi possono fare miracoli, dando fiducia e imprese e consumatori. L’effetto segnale si è spento presto però, purtroppo.
Già a fine marzo la prima reazione di Renzi al piano Cottarelli, quella del «come mamma e papà in famiglia diciamo noi cosa tagliare», aveva suggerito che le sue parole sugli interventi dal lato della spesa fossero solo parole, appunto. Il comportamento di Renzi sulla scena europea, l’insistenza sulla flessibilità, aveva poi chiarito (tranne a chi davvero non volesse vedere) che le linee della politica economica di Renzi non si sarebbero discostate dalle vecchie attitudini care al nostro Paese: di nuovo ci sarebbe stata solo spesa pubblica. L’urlo di dolore del commissario Cottarelli, che ha rivelato come il governo stesse spendendo risparmi di spesa previsti futuri ma non realizzati, è stata solo la cliegina sulla torta.
La questione concettuale importante da porsi è perché una prevista politica di domanda aggregata, di nuovi investimenti pubblici (suggerita dalla richiesta all’Europa di non includere gli investimenti nel computo del deficit) non abbia avuto gli effetti desiderati. Vi sono due ragioni, o anche tre. La prima è che la spesa pubblica nel nostro Paese è tradizionalmente inefficiente, di natura clientelare. Intervenire sulla riforma Fornero per regalare a categorie amiche qualche anno in più di pensione, come sta cercando di fare il governo in questi giorni, è esattamente questo, né più né meno. Inoltre, corruzione e scandali connessi ai grandi appalti, dal Mose all’Expo, non aiutano certo a considerare positivi gli effetti economici di nuova spesa.
La seconda ragione è che la spesa pubblica va ripagata prima o poi, attraverso nuove tasse (il canale del debito è strettissimo per ovvie ragioni), e il livello di tassazione nel nostro Paese è così elevato (e concentrato a causa dell’evasione) che nuove tasse sono un suicidio economico. La terza ragione è che politiche di domanda aggregata è quello che l’Italia fa da sempre, da quando erano di moda fino a quando non lo sono state più. I risultati sono davanti agli occhi di tutti e la ragione è che questo tipo di politiche sono fatte apposta per essere distorte dal sistema politico che le usa a dismisura per allargare la dimensione del proprio controllo.
In conclusione, la tanto vituperata e ridicolizzata idea dell’austerità espansiva non è affatto una stupidaggine se qualificata e calibrata all’Italia. Se per austerità si intendono nuove tasse o anche minori spese generalizzate, allora ovviamente non ci si può aspettare espansione economica come conseguenza. Ma se l’austerità prendesse la forma di tagli alle spese improduttive allora la questione sarebbe diversa. Ha voglia il viceministro all’Economia Enrico Morando a dichiarare che «non c’è evidenza empirica» che un’alta spesa pubblica e un’alta pressione fiscale si associno a una bassa crescita economica. Ci sarebbe da ridere se non fosse che su queste interpretazioni dei dati si fa politica economica nel nostro Paese. Provi il viceministro a condizionare alla qualità della spesa e delle tasse e poi riguardi all’evidenza empirica.
Naturalmente è facile a dirsi, tagli alle spese improduttive, ma molto più complesso farli. Per questo la capacità propulsiva del governo Renzi muore con Cottarelli. Perché la reazione violentemente negativa del governo ad un piano serio e ben fatto di spending review non può che essere interpretata come mancanza di volontà di procedere realmente (non solo retoricamente) nella direzione dei tagli di spesa. E allora imprese e consumatori sanno cosa li aspetta: nuova spesa improduttiva e nuove tasse (nascoste in qualche trucco contabile). In queste condizioni ci vuole altro che l’entusiasmo e l’ottimismo di Renzi per farle tornare a investire e consumare. E gli 80 euro appaiono per quello che ovviamente sono al di là della loro capacità di segnalare una nuova direzione di politica economica, una manovra ridicolmente inadeguata e mal congegnata.
Renzi è a un bivio, ha due strade davanti a sé, abbia il coraggio di prendere quella mai utilizzata in passato (tutto il credito a Robert Frost per l’immagine). Non cerchi di far credere al Paese che l’ha presa mentre scorrazza amabilmente e comodamente in quell’altra. I dati di oggi dimostrano che imprese e consumatori non se la bevono così facilmente.