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Italia.it, un’occasione persa costata venti milioni di euro

Italia.it, un’occasione persa costata venti milioni di euro

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

La ricetta del «cunigghiu a’ stimpirata» proposta solo in italiano e senza sottotitoli anche ai turisti tedeschi, meno male, è sparita. E così tanti altri svarioni che fecero ridere il pianeta. Ma il tormentone di Italia.it, il sito che doveva «vendere» il nostro Paese sul mercato mondiale non è finito. Ieri ha sbattuto la porta il direttore, Arturo Di Corinto. Ritiene «poco dignitoso», a ragione, che lui e i pochi dipendenti rimasti lavorino da mesi senza essere pagati. Per un sito costato una cifra mostruosa: venti milioni di euro.

In realtà, come ha confermato il governo rispondendo a un’interrogazione grillina, i milioni stanziati per il progetto dal ministro berlusconiano Lucio Stanca nel lontano 2004 erano addirittura 45. Incrementati più avanti da altri 10. Si trattava, però, di «fantastilioni di triliardi», per dirla in moneta di Paperon de’ Paperoni: mai visti, tutti quei soldi. Erano solo sulla carta. In realtà, tra un rifacimento e l’altro (resta indimenticabile il primo logo, dove la «t» verde di Italia pareva un cetriolo) la costruzione del portale è durata quanto quella, assai più complicata, del tunnel sotto la Manica. Colpa del solito interminabile contenzioso su uno degli appalti, delle indecisioni della politica, di un assurdo sballottamento di competenze tra queste e quella società, di risse da comari interne finite con scambi di querele, di alcuni misteri che dovranno essere chiariti dalla magistratura che già sta indagando (la lettera di Di Corinto accenna addirittura a «fatti delinquenziali») ma più ancora di una lista di errori così lunga da riempire settanta pagine di un rapporto al ministero. Dagli strafalcioni nelle traduzioni fatte con translate.google.it per risparmiare sugli interpreti alle foto sbagliate, dalle citazioni errate ai link che portavano da tutta un’altra parte. Risultato, un disastro. Tale da far precipitare Italia.it al 184.594° posto fra i siti web più visitati del Pianeta. Per non dire delle pagine rivolte ai cinesi: nelle quattro grandi foto che riassumevano l’Italia c’erano una Ferrari, una Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Come fosse la capitale d’Italia: per risparmiare, dopo aver buttato via pacchi di quattrini, avevano fatto un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna! Ci sono voluti due anni, dal giugno 2012 in qua, per restituire un po’ di decoro alla nostra «vetrina» sul web.

Vetrina che oggi, nonostante la redazione della società «Unicity», composta da giornalisti, social media manager, traduttori, storici dell’arte, fotografi e videomaker si sia via via ridotta dalle venti del progetto iniziale a quattro persone e nonostante sia stato necessario chiudere il portale in cinese per poter tornare in Rete con qualcosa di più serio, spiega nella sua lettera a Matteo Renzi e a Dario Franceschini Arturo Di Corinto (subito convocato al ministero, pare, nel tentativo di mettere una toppa allo scandalo), si compone di 259 mila pagine web.

Per non dire di Facebook (da zero a 229 mila fans) e di Twitter (da zero a 67 mila follower), che hanno obbligato i ragazzi della redazione a una rimonta febbrile per recuperare anni di ritardi. E costretti a supplire con l’impegno e la fantasia al pressoché totale disinteresse della politica. Pochi dati dicono tutto: per la «campagna turistica d’autunno » l’Irlanda del Nord ha stanziato un mese fa 9 milioni e mezzo di sterline. La Croazia, sulla campagna di quest’anno «Visit Croatia, Share Croatia», ha messo 7 milioni e mezzo. La Gran Bretagna, soltanto sui social network considerati fondamentali per la politica turistica in questi anni ha investito 25 milioni di sterline. E noi? Zero carbonella. Anzi, sui diversi strumenti offerti dal Web per agganciare i turisti, non è stato sganciato un solo euro dal 2010. Peggio: dal marzo di quest’anno non arrivano più, accusano i dipendenti del portale, neppure i 30 mila euro al mese dovuti per pagare gli stipendi. Eppure mai si era visto nella storia un boom quanto quello del turismo negli ultimi anni.

Basti dire che nel 2004, quando il governo di Silvio Berlusconi avviò (sia pure con grave ritardo e coi capitomboli che abbiamo detto) il progetto del portale Italia.it, gli abitanti del Pianeta che viaggiavano per vacanze erano 765 milioni. Dieci anni dopo, cioè nel 2013, sono stati un miliardo e 87 milioni. Con un aumento complessivo del 42%. Per contro l’Italia, nonostante sia in cima ai desideri dei turisti di tutto il mondo (che però devono fare i conti, purtroppo, con una serie di handicap pesanti a partire dal costo degli hotel, che secondo Eurostat sono da noi nettamente più cari che in Spagna, in Grecia, in Croazia, in Portogallo, in Germania, in Turchia, in Austria e in Gran Bretagna), ha visto i suoi visitatori passare in dieci anni da 37 a 47 milioni, con un aumento molto più basso di quello mondiale.

Peggio ancora negli ultimissimi anni: dando ragione a Jeremy Rifkin(«L’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è il turismo globale: una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo») il boom planetario ha visto dal 2009 a oggi crescere i turisti mondiali di oltre duecento milioni. Un diluvio. Del quale ci è arrivata solo una pioggerella. Anzi, nel 2013 l’Italia, nonostante sia saldamente la quinta al mondo per numero di visitatori (e pensare che fino a trent’anni fa eravamo i primi…) ha subito addirittura, nelle presenze, un calo del 4,5%. Il guaio è che mancano solo pochi mesi all’Expo. E come dimostrano centinaia di grafici e tabelle e report sull’e-commerce, il turismo nel terzo millennio si muove sempre di più seguendo i percorsi della Rete. O ci diamo una mossa o rischiamo davvero una figuraccia.

Il boom della finanza questa volta è sociale

Il boom della finanza questa volta è sociale

Andrea Di Turi – Avvenire

Una crescita in doppia cifra di questi tempi è cosa piuttosto rara. Ma non per la finanza socialmente responsabile (Sri), più nota come finanza etica, che dimostra ancora una volta la sua capacità di “contaminare” i mercati finanziari guardando alle performance non solo economiche ma anche sociali e ambientali degli investimenti.

I numeri presentati ieri da Eurosif, l’organizzazione dei forum nazionali europei che promuovono la finanza Sri (per l’Italia il Forum per la finanza sostenibile), parlano da soli. Tra il 2011 e il 2013, nei 13 Paesi europei considerati dallo studio, si è assistito a una crescita in doppia cifra per tutte le modalità d’investimento riconducibili allo Sri. E tutte hanno fatto meglio, in termini di performance, del settore del risparmio gestito complessivamente considerato a livello continentale.

In particolare, secondo lo studio, che è stato realizzato grazie al contributo di realtà come Edmond de Rothschild asset management o Generali Investments Europe, a registrare un vero e proprio boom è stato il settore degli impact investing, gli investimenti che ricercano allo stesso tempo un rendimento accettabile e un impatto sociale (ad esempio garantire l’accesso a beni e servizi essenziali alle fasce svantaggiate della popolazione nei Paesi in via di sviluppo), sulla cui importanza si è soffermato di recente lo stesso Papa Francesco: l’impact investing, infatti, è la strategia di investimento socialmente responsabile che è cresciuta di più (+132%), tanto che si stima che il mercato europeo valga circa 20 miliardi di euro. Ed è un mercato in cui, dopo Olanda e Svizzera che insieme valgono i due terzi (il 50% dell’impact investing in Europa è rappresentato dalla microfinanza), l’Italia è ben posizionata, insieme a Gran Bretagna e Germania.

Notevole anche la crescita delle strategie di investimento responsabile dette di esclusione (o negative), che cioè escludono dall’universo investibile singole società quotate o interi settori considerati eticamente discutibili o quanto meno controversi: un caso tipico è quello degli investimenti in società che producono cluster bomb (bombe a grappolo) e mine anti-uomo, che in alcuni Paesi (ad esempio in Belgio) sono stati addirittura vietati per legge. Gli asset soggetti a criteri di esclusione sono cresciuti del 91%, a quasi 7 trilioni di euro (7mila miliardi di euro), cioè oltre il 40% degli asset gestiti complessivamente a livello europeo, e costituiscono oggi la modalità di investimento Sri più diffusa in Europa.

È ancora l’Italia, poi, a distinguersi in relazione alle pratiche di “engagement”, ossia di dialogo tra investitori e imprese su temi sociali e ambientali, che può sfociare nel voto in assemblea: l’engagement interessa 3,3 trilioni di euro di asset, è cresciuto dell’86% in Europa ma più di tutti è cresciuto in Italia, dov’è quasi raddoppiato (+193%) rispetto a due anni fa. Gli investitori etici italiani stanno dunque diventando anche investitori “attivi”? Forse. Di certo sarà uno degli argomenti della terza Settimana italiana dell’investimento sostenibile, in programma dal 4 al 12 novembre.