Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”
di Alessandro Pagano*
I dati pubblicati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” non mi sorprendono più di tanto. Anzi, paradossalmente mi rallegro del fatto che questi numeri possano essere diffusi, così da sottolineare tutte le contraddizioni interne di una sterile retorica – presente in ampi strati del mondo politico e governativo – su aiuti, bonus e previdenza in genere. Si tratta, per carità, di iniziative utili e meritorie, ma che troppo spesso non sono in grado di realizzare gli obiettivi per cui sono state messe in campo. È sempre positivo, dunqe, che osservatori neutrali siano in grado di raccogliere dati capaci di far esplodere queste contraddizioni. Perché è proprio su queste contraddizioni che diventa possibile fare qualche ragionamento serio.
Per esempio, è impossibile non notare come la nostra spesa per il welfare sia quasi sempre indirizzata – anche giustamente, da un certo punto di vista – nei confronti di coloro che restano disoccupati in seguito a crisi di lavoro. Questo, però, produce degli elementi fortemente distorsivi per la nostra economia. È normale, oltre che giusto, concedere un sussidio di disoccupazione a persone che, a 55-60 anni, hanno difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ma quando lo stesso sussidio viene concesso in contesti molto differenti, questo provoca inevitabilmente delle distorsioni. Mi spiego meglio, perché si tratta di casi concreti che ho toccato con mano: segni di un malcostume che una volta riguardava soprattutto il Mezzogiorno ma che oggi si è diffuso anche nel Nord del Paese. Parlo dei giovani che si fanno assumere, lavorano per 7-8 mesi e poi, appena raggiunti i requisiti di legge, fanno di tutto per farsi licenziare. E lucrare sull’indennità di disoccupazione. Questa abitudine, più comune di quanto non si pensi abitualmente, porta a una distorsione di tutto il meccanismo del welfare. Le persone che lavorano “in nero” mentre percepiscono il sussidio di disoccupazione (o, peggio, si limitano a poltrire) non solo provocano un danno alla nostra economia, ma anche al tessuto culturale del Paese.
Anche quando il sussidio di disoccupazione è concesso a chi veramente ne ha bisogno, però, gli effetti distorsivi sono sempre dietro l’angolo. Perché queste persone, di fronte all’incertezza nei confronti del futuro, non hanno certo la tendenza a spendere, ma piuttosto cercano di risparmiare il più possibile. Il denaro dei contribuenti, dunque, non va ad alimentare i consumi o gli investimenti, ma viene messo da parte e immobilizzato.
Queste risorse – che oggi in gran parte servono ad alimentare effetti negativi sotto il profilo culturale ed economico – potrebbero essere utilizzate molto meglio se utilizzate a favore della famiglia. Quando lo Stato indirizza la spesa pubblica direttamente verso le famiglie, per esempio stimolandole ad avere figli, si crea inevitabilmente un effetto volano per tutta l’economia, perché i genitori spenderanno quel denaro per i figli: spendono per migliorare la loro qualità di vita, per attività extrascolastiche che altrimenti non potrebbero permettersi, per mandarli in una scuola migliore, per viaggi studio all’estero che possono arricchire in modo decisivo la loro esperienza. Da parte dei genitori, insomma, c’è una propensione virtuosa al consumo. E anche quando si preferisce il risparmio, si tratta di risparmio orientato verso il futuro dei propri figli, non immobilizzato in un cassetto proprio per paura del futuro. Si tratta di spesa pubblica, dunque, che crea effetti positivi sotto il profilo sia economico che culturale.
È chiaro che, partendo da questa prospettiva, è lo stesso modello di welfare del nostro Paese che va completamente ripensato. L’assistenzialismo italiano, così com’è, serve soltanto a trasformarci nella “Calabria d’Europa”, cioè in una macroregione assistita in cui la spesa pubblica serve solo a garantire un’economia minima di sussistenza (e magari i voti sufficienti a mantenere la propria rendita di posizione), ma che non riesce a diventare volano per la crescita. È possibile, invece, immaginare un welfare intelligente, che punta sui figli come risorsa primaria per la nostra società. I numeri della demografia, del resto, ci inchiodano a questa necessità: con 1,1 figli per coppia siamo destinati all’impoverimento. Ed è sotto gli occhi di tutti la banalità della retorica terzomondista che vorrebbe affidarsi ai flussi migratori per correggere questa tendenza: da noi ormai arrivano immigrati che non rappresentano un valore aggiunto significativo, in termini economici o culturali; mentre i nostri ragazzi migliori sono costretti a fuggire dall’Italia per arricchire, in tutti i sensi, gli altri Paesi.
Concludendo, i soldi investiti direttamente nelle famiglie – per esempio con quello che una volta si chiamava “quoziente familiare” – sono qualcosa di molto distante dall’assistenzialismo a cui purtroppo siamo abituati. E questo tipo di spesa pubblica deve crescere, non soltanto per portare l’Italia almeno ai livelli della media europea (e già questa sarebbe, di per sé, una motivazione sufficiente), ma perché si tratta di una spesa capace di avere effetti di moltiplicazione, sia in termini di consumo immediato, sia in termini di progresso culturale. Con una popolazione giovanile schiacciata da pensioni, sanità e assistenzialismo, i conti non tornano. Mentre allargando la base demografica si creano le condizioni per far ripartire il sistema produttivo, tornando a poter contare su una prospettiva di lungo periodo. Lo dico da cattolico: la famiglia non è soltanto la cellula fondamentale su cui è costruita la società, ma anche il destinatario ideale per una spesa pubblica virtuosa, capace di diventare una leva straordinaria per la crescita economica.
* Deputato nazionale di Area Popolare, componente della Commissione Finanze e della Commissione Giustizia