Più ottimisti che pessimisti, ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti

Daniele Marini – La Stampa

Stanchi e provati come dopo un lungo e tortuoso viaggio del quale ancora non si vede chiaramente il traguardo. Durante il tragitto, le condizioni di vita per molti sono peggiorate e l’orizzonte è sempre molto incerto, quasi imperscrutabile. Tuttavia, nello stesso tempo, si guarda al futuro con una qualche speranza, soprattutto con un atteggiamento di attesa disincantata, dopo tante disillusioni e mancate promesse. È il sentimento generale degli italiani che emerge dall’ultima rilevazione dell’indagine LaST (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa). Potrebbe essere diversamente, dopo che sono trascorsi oltre sei anni dall’avvio conclamato della crisi economica? Dopo che, nel frattempo, abbiamo sperimentato in rapida successione quattro esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)? Dopo che la disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati e investito una parte consistente delle giovani generazioni, facendo diventare il lavoro (e con esso il senso del futuro) la preoccupazione maggiore degli italiani?

Evidentemente no, non potrebbe essere altrimenti. E questo anche a dispetto dei piccoli segnali recenti che hanno messo in luce qualche positività. Il numero degli occupati che – per il momento – ha conosciuto un lieve miglioramento. Il novero delle persone che hanno ricominciato a cercare attivamente un’occupazione. Le banche che segnalano una ripresa dei risparmi delle famiglie, ma che rimangono giacenti. Indicatori oggettivamente positivi, ma soggettivamente ancora non in grado di influenzare gli orientamenti. Perché la percezione determina la realtà. E ciò spiega – com’era plausibile ipotizzare – come mai gli 80 euro non sono finiti nei consumi, ma nei risparmi, in attesa di tempi più certi e migliori. Lo si può comprendere meglio se consideriamo come gli italiani percepiscono le loro condizioni economiche. Rispetto a tre anni fa, in generale, una leggera maggioranza (53,4%) ritiene che il proprio bilancio economico familiare sia rimasto sostanzialmente stabile. Fra questi, soltanto meno di un decimo (8,7%) l’ha visto aumentare. Per il 46,6%, invece, il reddito mensile disponibile in famiglia è diminuito.

Dunque, le risorse economiche disponibili per gli italiani quando è andata bene sono rimaste invariate e per una parte assai consistente sono andate peggiorando. Di sicuro, non abbiamo conosciuto alcuna mobilità economica, e quindi sociale, ascendente. I più penalizzati da questa situazione sono le donne, i 50-60enni, chi possiede un basso livello di studio e le persone ai margini del mercato del lavoro (disoccupati, pensionati e casalinghe). Se queste sono le condizioni economiche oggi, rispetto a tre anni fa, quali sono le prospettive? Quando si prevede di uscire da questa crisi? L’incertezza è l’elemento dominante.

Complessivamente, tre interpellati su quattro (75,1%) ritengono si dovrà aspettare almeno un anno e mezzo prima di uscire dalle difficoltà e fra questi ben il 68,2% vede la fine del tunnel oltre l’anno e mezzo. Pochi (10,2%) immaginano si debba aspettare al più solo un anno prima di conoscere prospettive migliori e una quota marginale (2,2%) intravede già segni di ripresa. Se a chi rinvia ad almeno un anno e mezzo l’attesa di un miglioramento aggiungiamo quanti non se la sentono di fare previsioni (12,5%), otteniamo che quasi i nove decimi della popolazione vivono nel day by day, privi di un orizzonte temporale definito: si naviga a vista, in assenza di una direzione precisa.

L’aspetto preoccupante è che questa indeterminatezza sul futuro sembra innervare in misura maggiore le prospettive economiche personali e familiari, più ancora di quelle del territorio in cui si vive, dell’Italia o dell’Europa. A immaginare che nel futuro prossimo la situazione economica conoscerà un miglioramento per il proprio nucleo familiare è in media il 42,1% degli italiani. Analogamente, il 61,1% fra gli intervistati ritiene che ciò accadrà per l’area di residenza, il 62,5% per l’Italia e il 46,3% per l’intera Europa. Dunque, si pensa (o si auspica) che l’economia del Paese possa riprendersi, ma si medita che le proprie condizioni faranno più fatica a risollevarsi. Una conferma indiretta a questa difficoltà a sognare un futuro positivo viene dal recente Prosperity Index 2014 (Legatum Institute) che mette a confronto 142 Paesi sull’idea di sviluppo futuro: l’Italia si colloca al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.

Per provare a offrire una misura di sintesi, abbiamo creato un indicatore di fiducia sul futuro, sommando le prospettive di crescita economica per i diversi ambiti. Ne scaturiscono quattro profili prevalenti. Gli Ottimisti sono un terzo degli interpellati (34,3%) e annoverano chi, per tutte le dimensioni, ipotizza percorsi di miglioramento economico e, in proporzione, comprendono quanti sono oggi più in difficoltà (operai), i sessantenni o hanno avuto una diminuzione di reddito rispetto agli anni precedenti. Quindi, un ottimismo dettato dalla speranza. Il gruppo più cospicuo, però, è quello degli Attendisti (39,2%), quanti oscillano attorno a una condizione di stabilità o di leggero miglioramento. Il terzo gruppo è quello dei Preoccupati (21,7%): comprende ha una visione tendenzialmente pessimista per le condizioni economiche future, idea particolarmente diffusa fra le giovani generazioni e chi ha un titolo di studio elevato. Infine, troviamo i Pessimisti (4,8%), nucleo marginale che prevede un sostanziale declino generalizzato.

Fiducia e senso di un futuro possibile sono il motore dello sviluppo. Ma questi lunghi anni di difficoltà hanno intaccato l’aspettativa di realizzare un miglioramento per sé e per i propri familiari. Come se negli italiani si stesse incrinando la proverbiale capacità di adattamento alle difficoltà. E, in questa lunga traversata, avessero tirato un po’ i remi in barca.