I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco
Davide Giacalone – Libero
Il futuro economico degli odierni lavoratori si regge su due gambe: da una parte la previdenza obbligatoria, dall’altra quella integrativa e facoltativa. La prima è piena di protesi e bulloni, frutto di continue riforme. Che neanche sono finite. L’altra doveva essere più atletica e promettente, ma manifesta qualche cedimento al ginocchio.
Sono in crescita i lavoratori che portano i loro risparmi verso i Piani individuali pensionistici: il 29,4%, 6 milioni e mezzo di persone. Il 5,4% in più rispetto al 2013. E questo è un bene. Potrebbero e dovrebbero (dovremmo) essere più numerosi, ma si tratta già di una fetta significativa. La relazione della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), però, segnala un dato preoccupante: cresce anche il numero di quelli che interrompono i versamenti, che, in altre parole, non riescono a tenere il passo con quanto avevano programmato di risparmiare e accantonare: erano 1,2 milioni nel 2013, sono diventati 1,4 milioni a marzo 2014, per arrivare a 1,6 alla fine dell’anno scorso.
Effetto della crisi? Certo, ma anche di una pressione fiscale che non molla la presa sugli italiani che producono, risucchiando nella spesa pubblica quel che sarebbe saggio lasciare al risparmio privato. Tanto più se si tiene conto di questi fatti: nel corso del 2014 sono stati raccolti 13 miliardi di euro, 600 milioni in più rispetto al 2013; dei contributi versati, 5,3 miliardi di euro provengono da flussi di trattamento fine rapporto, di cui l’82% confluisce nei fondi pensione negoziali e preesistenti; il rendimento del Tfr così impiegato è stato del 7%, mentre quello lasciato al datore di lavoro (dove prima si trovava obbligatoriamente) ha reso 1,3%. Chi ha dovuto interrompere i versamenti, quindi, subisce un danno notevole, perdendo le occasioni propiziate dalle politiche espansive della Banca centrale europea, dal calo del cambio e del prezzo del petrolio. Danno che si estende, come occasione mancata, all’intero sistema produttivo.
Esaminiamo l’ultima serie di dati: alla fine del 2014 il patrimonio delle forme pensionistiche complementari ha raggiunto 131 miliardi, circa il 12% in più rispetto alla fine del 2013, pari all’8,1% del prodotto interno lordo e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane; gli investimenti dei fondi pensione sono destinati per il 35% al nostro Paese, ma solo il 3% va a finanziare le imprese nazionali. La gran parte di quei soldi, quindi, finisce in titoli del debito pubblico che, come sanno bene i “Bot people”, ora rendono pochissimo. Per andare a cercare rendimenti produttivi i nostri risparmi emigrano. Questa è un’opportunità positiva per quei risparmiatori, ma negativa per l’Italia.
Gli alti rendimenti statali del passato erano in gran parte illusori, visto che venivano continuamente corretti dall’alta inflazione e dalle continue svalutazioni, ma, appunto, rappresentavano pur sempre un’illusione confortante. Se, però, guardiamo ai risultati positivi delle nostre imprese che esportano, le stesse che trovano credito con mille difficoltà e a un prezzo più alto rispetto ai concorrenti, ci rendiamo conto che stiamo sprecando un’occasione: dirigere il flusso del risparmio non più al finanziamento del debito e della spesa pubblica, ma della produzione e dell’impresa privata. La prima via portava risultati apparenti, la seconda può portarne di entusiasmanti. Ma non la si imbocca. Perché? Perché il finanziamento all’impresa resta bancocentrico (e asfittico), gli strumenti finanziari altrove diffusi (ad esempio negli Usa) qui restano sconosciuti e, come non bastasse, il fisco penalizza questo genere d’impieghi.
Ieri riflettevamo sulla Cassa depositi e prestiti e sull’idea, più mormorata che ufficializzata, di farne strumento governativo d’intervento nel sistema produttivo, ma è, quello, un modo antiquato e dirigistico di ragionare. Mentre il risparmio gestito, anche di natura previdenziale, potrebbe trovare ottimi e succosi impieghi proprio scommettendo sui nostri campioni produttivi. Se questo non accade, totalizzando il doppio danno, contro i risparmiatori e contro i produttori, è in gran parte perché i lacci fiscali strangolano il mercato interno. Con il risultato di portare i nostri risparmi, in cerca di guadagni, a finanziare i produttori altrui. E se non è follia masochista questa, altre non riesco a immaginarne.