francesco de dominicis

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Francesco De Dominicis – Libero

Pulizia dei conti delle banche a spese del contribuente. Con la scusa di dare una spinta alla ripresa economica, rimettendo in moto il motore dei prestiti alle imprese, il governo di Matteo Renzi sta per scaricare sulla testa (e sulle tasche) degli italiani una gigantesca montagna di spazzatura. Cioè gli oltre 131 miliardi di euro di «sofferenze» delle banche, vale a dire i finanziamenti non rimborsati dalle aziende. Un giochetto battezzato «bad bank» che potrebbe costringere lo Stato, con la inevitabile sottoscrizione di garanzie, a un esborso che oscilla da 10 a 30 miliardi. Quattrini pubblici utilizzati per salvare i bilanci degli istituti di credito.

L’idea è allo studio del governo da un paio di mesi e ora siamo alle battute finali. Il progetto non ha ancora preso la forma finale, ma la sostanza è questa: nasce un nuovo soggetto a cui partecipa lo Stato nel quale confluiscono, appunto, le sofferenze. Per gli istituti il vantaggio è enorme: dalla sera alla mattina incasseranno denaro fresco e soprattutto sicuro, a fronte di crediti «dubbi», difficilmente monetizzabili. Un alleggerimento dei conti che ­ ecco la spinta alla ripresa ­ si potrebbe tradurre in una maggiore capacità di erogare nuovi prestiti, magari sfruttando quella liquidità in arrivo, da marzo, con il bazooka della Banca centrale europea.

Qui entrano in gioco noiosissimi dettagli tecnici e regole patrimoniali (italiane ed europee) che ingessano i prestiti. Fatto sta che il cosiddetto quantitative easing dell’Eurotower dovrebbe portare in Italia, fino a settembre 2016, circa 120 miliardi (su 1.140 totali di Qe) che, grazie alla mossa di palazzo Chigi, potrebbero rapidamente essere «dirottati» sull’economia reale. Fin qui tutto ok. Gli esperti delle super società di consulenza definirebbero l’operazione «win­win»: vincente per tutti. Senza dubbio la questione delle sofferenze va affrontata a livello «sistemico» perché per l’industria bancaria la zavorra dei finanziamenti non ripagati è ormai insostenibile e i nuovi prestiti, nonostante un lieve miglioramento a fine 2014, sono una chimèra. Eppure non mancano i rischi; e le zone d’ombra, legate proprio al ruolo di un soggetto pubblico, non sono poche. I rischi derivano dalle concrete probabilità che lo Stato riesca a recuperare dalle imprese quei soldi che per le banche sono di fatto una perdita secca o quasi. L’attività di recupero crediti, del resto, con l’onda lunga della crisi, equivale grosso modo al gioco d’azzardo: ti siedi al tavolo verde e la possibilità che ti alzi senza quattrini in mano è altissima. E se lo Stato perde, bisogna metterci una pezza con una manovra: nuove tasse o tagli alla spesa. Al momento esistono tre o quattro ipotesi diverse, come confermato ieri da fonti del Tesoro. In linea di massima, sembra scontata la partecipazione della Banca d’Italia oltre che della Cassa depositi e prestiti, anche se a via Nazionale le perplessità non sono poche e i tecnici stanno analizzando l’esperienza tedesca di Commerzbank.

A via Venti Settembre si ragiona attorno a una realtà oggi controllata da banca Intesa, Sga, società di gestione dell’attivo nata nel 1997 per salvare il banco di Napoli, che il Tesoro acquisterebbe per 600 mila euro. Attraverso uno o più aumenti di capitale ­ che verrebbero sottoscritti dalle banche, dallo Stato, dalla Cdp, da Bankitalia e da eventuali investitori privati ­ la nuova Sga arriverebbe a un capitale da 3 miliardi. Potrebbe così finanziare l’acquisto delle sofferenze verso le imprese superiori a una soglia minima di valore nominale di 500 mila euro, anche emettendo titoli obbligazionari assistiti da garanzia statale, da collocare sul mercato. Per quanto riguarda l’assetto proprietario, due sono gli scenari ipotizzati: nel primo la partecipazione pubblica si fermerebbe al 49%, mentre le banche deterrebbero il 19% e il 32% andrebbe agli investitori privati; uno schema che escluderebbe la ricaduta delle passività del veicolo nel perimetro del debito pubblico. L’altra opzione invece vedrebbe la partecipazione pubblica all’81% mentre il restante 19% andrebbe alle banche, senza la partecipazione di investitori privati. Il soggetto però ricadrebbe nel perimetro del debito pubblico.

Le zone d’ombra riguardano i divieti dell’Unione europea: l’intera operazione potrebbe essere bollata come «aiuto di Stato» e il tetto al 49% per la partecipazione pubblica potrebbe non bastare, secondo alcuni esperti. Divieti Ue a parte (magari aggirabili), Renzi sarà comunque costretto a sgonfiare le inevitabili polemiche su un palese aiutino pubblico alle banche. Ragion per cui l’ex sindaco di Firenze vuole evitare il passaggio parlamentare, costruendo l’intera operazione con decreti ministeriali e atti societari: niente leggi da mandare al vaglio di Camera e Senato. Obiettivo non facile da raggiungere visto che, alla fine della giostra, l’esborso di denaro pubblico a titolo di garanzia sulle sofferenze «acquistate» dallo Stato, ci sarà. Il che implica una manovra sul bilancio pubblico perciò un provvedimento legislativo è indispensabile.

La cifra finale sarà definita sulla base della quota di rischio legata all’operazione: ballano tra i 10 e i 30 miliardi di euro. C’è poi chi punterà il dito contro il premier, snocciolando i dati di Bankitalia secondo cui, come calcolato nei mesi scorsi da alcune associazioni di categoria, la maggior parte delle sofferenze è legata ai grandi prestiti non rimborsati. Nel dettaglio, il 67% dei «crediti dubbi» si riferisce a finanziamenti superiori a 500mila euro e a 505 soggetti sono attribuibili 25 miliardi di perdite. Come dire: paghiamo gli errori dei banchieri e i soldi prestati agli amici. La comunicazione, pertanto, sarà decisiva. In ogni caso, il governo è intenzionato a procedere rapidamente. E nelle prossime settimane la creatura bancaria statale potrebbe vedere la luce. Ma i dubbi restano e i pericoli pure. Renzi non vuole far più «soffrire» le banche, ma corre il rischio di far piangere i contribuenti.

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Francesco De Dominicis – Libero

Da un premier che vive di smartphone e tablet non se lo sarebbe aspettato (quasi) nessuno. Eppure, Matteo Renzi, l’alfiere della modernità, sta per dare una clamorosa stangata a telefoni cellulari, tv, chiavette usb e qualunque prodotto hi tech abbia un supporto di memoria digitale. La stangata è azionata in tandem con la Siae (l’ente che gestisce i diritti d’autore) ed è di fatto nascosta e per questo ancora più odiosa. Quanto pagherà una famiglia in un anno? Dipende, ovviamente, dal volume degli acquisti: ma se si comprano, nel giro di 12 mesi, un paio di smartphone, un televisore e un hard disk l’esborso può anche superare i 100 euro; a 20 euro si arriva facilmente, con una chiavetta usb e un hard disk esterno.
La manovra passa attraverso l’aumento del cosiddetto «equo compenso» per la copia privata, le riproduzioni ad uso personale di musica e film su apparati come smartphone e tablet. Un balzello che esiste da un po’ e che il governo ha deciso di inasprire sensibilmente. Per chi compra equivale a una tassa «una tantum». Che poi non è nemmeno il primo intervento volto ad alzare le tasse: solo giovedì è spuntato il rincaro delle accise sulle sigarette, dal primo luglio è aumentata la tassazione sulle rendite finanziarie (dal 20 al 26 per cento) e col decreto sugli 80 euro è salito pure il prelievo sui fondi pensione.
Insomma, l’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Firenze ha una certa confidenza con i tributi. Dell’intervento sulla «copia privata» si discute da settimane, ma ieri il sito specializzato Dday.it ha diffuso i dettagli dell’ultima bozza allo studio del ministro per la Cultura, Dario Franceschini. «Copia privata» è il diritto che tutti i cittadini hanno di copiare, appunto, qualsiasi contenuto acquistato legalmente su altri apparecchi di sua proprietà. Ed è proprio su questo teorico trasferimento di dati da un supporto a un altro che si inserisce la gabella, che viene prelevato dal fisco, a prescindere dall’eventuale riproduzione, al momento dell’acquisto. Ma il giochetto non è finito perché sull’importo finale scatta anche l’Iva: la tassa sulla tassa.
Sta di fatto che la nuova bozza porta alla luce un raddopppio rispetto ai vecchi importi. Si parte con gli smartphone e i tablet (finora esclusi dal salasso): fino a 8 gigabyte di memoria il copenso è di 3 euro, fino a 16 gb di 4 euro, fino a 32 gb di 4,80 euro e oltre i 32 gb di 5,20 euro.
Non è finita. Sotto la scure finiscono anche i tv, compresi quelli sprovvisti di hard disk finora esclusi dal pagamento dell’obolo Siae che è pari a 4 euro. Per i computer l’importo è stato fissato a 5,20 euro oltre il doppio rispetto all’attuale tariffa che prevedeva un doppio livello: 2,40 euro (per pc con masterizzatore) o 1,90 euro (per tutti gli altri). In controtendenza il compenso per i telefonini che scende da 0, 90 euro a 50 centesimi, ma ormai gli apparecchi cellulari «base» non si vendono più. Per gli hard disk il discorso è articolato: finora erano colpiti solo i supporti esterni (0,02 euro per gb fino a 400 gb e 0,01 euro per gb oltre 400 gb), mentre adesso la «scure» cade pure su quelli potenzialmente integrabili nei pc. Il compenso diventa di 0,01 euro per gigabyte con un massimo di 20 euro. La riduzione, tuttavia, è solo apparente perché il raggio d’azione si estende a vista d’occhio. Per gli hard disk con uscite audio-video le tariffe sono più complesse e oscillano da 4,51 euro a 14,81 euro. Mentre va da 3,22 euro a 32,20 euro la forchetta per i personal video player. Per quanto riguarda le memorie o gli hard disk integrati in videorgistratori, decoder o tv si va da 6,44 euro a 32,20 euro. Vengono colpiti anche vecchi supporti come audiocassette, vhs, cd e dvd (con prelievi contenuti, attorno ai 10 centesimi) e pure supporti più evoluti, come i bluray disc (con prelievi pari a 0,20 centesimi ogni 25 gb).
Le categorie sono divise. Da una parte Confindustria digitale, per voce del presidente Elio Catania, si è detta pronta a dare battaglia. Dall’altra il suo omologo Marco Polillo, di Confindustria Cultura, che aveva detto di voler difendere il decreto. «Siamo pronti a fare ricorso: l’aumento è ingiustificato e non tiene conto dell’evoluzione delle tecnologie e delle mutate abitudini di utilizzo da parte dei consumatori, con lo streaming e il cloud storage ormai a farla da padroni rispetto alla copia privata, dando un segnale negativo per lo sviluppo tecnologico a fronte di un impegno in questo senso del Governo Renzi» aveva dichiarato Catania, pur schierandosi a favore della tutela del diritto d’autore e della lotta alla pirateria. Secca la replica di Polillo: «L’adeguamento del compenso è un processo in atto in molti Stati membri» della Ue. Come dire: ce lo chiede l’Europa, pure questa mazzata.