Una politica fiscale espansiva per curare la deflazione
Francesco Saraceno – Il Sole 24 Ore
Non è stato un bel mese d’agosto per l’economia europea. La notizia che ha catalizzato l’attenzione è stata la brusca frenata della Germania. Tra aprile e giugno, nessuna delle tre maggiori economie dell’eurozona è cresciuta. Questa è una cattiva notizia, perché la ripresa sembra già finita (dove è iniziata), e perché dimostra che contare quasi esclusivamente sulle esportazioni espone l’economia agli shock esterni (vedi per la Germania la crisi ucraina).
Ma la notizia peggiore è un’altra. Nel numero di agosto del bollettino mensile della Bce, a pagina 53, si trova un grafico che dovrebbe far passare notti insonni a Mario Draghi e ai leader europei: mostra che il consenso degli analisti sull’inflazione si è fortemente modificato. Un anno fa più del 50% si diceva convinto che nel medio peridodo l’inflazione sarebbe tornata al 2% o oltre, oggi la percentuale è poco più del 35%. Può sembrare che si parli di uno di quei dati esoterici che interessano solo gli addetti ai lavori, ma le aspettative hanno costituito il pilastro della strategia della Bce durante la crisi (soprattutto negli ultimi mesi). La prudenza di Francoforte e la resistenza alle sollecitazioni per una strategia più aggressiva di contrasto alla deflazione, si basavano sull’idea che le aspettative di medio periodo fossero stabili e “ancorate” al 2% di inflazione, obiettivo della banca centrale. Anche di fronte ai nuovi dati la Bce sembra optare per la strategia dello struzzo: a poche pagine di distanza si legge che «le aspettative di inflazione per l’area dell’euro nel medio-lungo periodo continuano a essere saldamente ancorate in linea con l’obiettivo di mantenere il tasso di inflazione inferiore, ma vicino al 2%».
In questi mesi il mantra della Bce è stato che la stabilità delle aspettative rendeva remoto il rischio deflazione, nonostante un tasso di variazione dei prezzi che si avvicinava allo zero. Era l’ultimo bastione che consentiva di sperare in una ripresa della spesa per consumo e investimenti. Se i mercati iniziano a prevedere, anche nel medio periodo, una situazione di deflazione strisciante, è facile stimare che la dinamica futura della spesa privata rimanga anemica: famiglie e imprese tenderanno a rinviare la spesa, attendendosi prezzi più bassi di oggi. È il rischio della deflazione.
I dati sulle aspettative spingono a credere che non esista più alcun ostacolo tra noi e una stagnazione di tipo giapponese (durata più di un decennio). Non c’è riforma che tenga; è difficile individuare, oggi, una dinamica autonoma che porti l’economia a lasciarsi alle spalle la crisi e se l’economia si trova invischiata in una stagnazione dalla quale non è in grado di uscire da sola non si può che puntare sulla politica economica. I riflettori sono tutti puntati sulla Bce, probabilmente anche per la sua eccessiva prudenza.
Ma anche se la Bce adottasse una politica più aggressiva è dubbio che questo basterebbe a rilanciare la crescita. Il bollettino della Bce riporta anche i risultati dell’ultima inchiesta (giugno 2014) sulle condizioni creditizie nell’Eurozona: il mercato del credito è anemico non solo perché le istituzioni finanziarie esitano a prestare, ma anche perché imprese e famiglie non domandano credito. Anche se il quadro è eterogeneo, e per alcuni paesi i vincoli creditizi possono avere un ruolo nel mantenere la spesa privata anemica (in Italia per esempio), aumentare l’offerta di credito, come dovrebbe fare la Bce in autunno, potrebbe avere meno effetti di quanto non si creda. L’economia europea è ancora invischiata in una trappola della liquidità. Procedendo per esclusione, non rimane che uno strumento da usare: una politica fiscale espansiva, che significa forte aumento della spesa pubblica (soprattutto per gli investimenti) nei paesi che possono permetterselo (la Germania, per cominciare) e una pausa nel consolidamento fiscale dei paesi le cui finanze pubbliche sono meno solide (Italia in primis). La Bce potrebbe e dovrebbe accompagnare queste politiche con l’impegno a non aumentare i tassi fin quando l’inflazione non sarà stabilmente risalita e la crescita non sarà tornata robusta.