Pochi fondi e burocrazia, riutilizzo flop
Giuseppe Crimaldi – Il Mattino
Quanto impiega un bene confiscato alla camorra a trasformarsi in un bene di pubblica utilità? Tanto, anzi troppo. Non c’è solo l’esempio del palazzo di tre piani di Cupa dell’Arco, a Secondigliano, nel quale la famiglia Di Lauro pianificava le proprie strategie di morte, oltre a quelle imprenditoriali della holding degli stupefacenti. I casi di un mancato riutilizzo di immobili sottratti alla “camorra Spa” e mai giunti in dirittura d’arrivo per quel che riguarda la destinazione d’uso con finalità sociali (e ovviamente legali) sono tantissimi.
Al termine della visita nel Casertano e a Napoli è stata la stessa presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi a sottolineare come i meccanismi di assegnazione risultino più che mai inceppati. «C’è uno scarto eccessivo tra beni sottratti e beni utilizzati – ha detto. La magistratura e le forze di polizia fanno la loro parte ma dobbiamo rafforzare la capacità delle istituzioni di assegnare questi beni. Giovedì avremo in Commissione l’audizione del nuovo direttore appena nominato e chiederemo a lui i motivi della mancata attuazione della banca dati, perché non abbiamo una tracciabilità di beni e questo vale anche per le aziende confiscate. Non possiamo permettercelo perché lì c’è il lavoro delle persone a rischio». Ancora più netta la posizione della parlamentare del Partito democratico Luisa Bossa: «Perché la legge regionale sui beni confiscati, approvata due anni fa, non trova attuazione? E perché la Regione Campania non ha chiesto e non utilizza nessuno dei beni confiscati sul territorio alla criminalità organizzata?».
La verità sta nei fatti. Ci sono voluti quattro mesi per nominare il nuovo direttore dell’Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (Anbsc): Umberto Postiglione, ex prefetto di Agrigento, poi di Palermo ed ex commissario straordinario per la provincia di Roma. L’ultimo atto di assegnazione di un bene confiscato risale al febbraio scroso, quando il vecchio direttore (il prefetto Caruso) ha affidato alcuni immobili al comune di Eboli, al Corpo Forestale dello Stato, ai Vigili del Fuoco e all’Arma dei Carabinieri. Da quel provvedimento ad oggi, la macchina dell’Agenzia si è fermata.
I numeri da gestire sono enormi: oltre 11mila beni immobili e 1.708 aziende confiscati direttamente. Ma il vero problema, oltre a quello delle assegnazioni e al riutilizzo dei beni, riguarda le aziende che nel 90 per cento dei casi, al momento della confisca definitiva, sono in stato di insolvenza con un grave impatto sui lavoratori e il futuro stesso delle attività. Se poi consideriamo che non esistono solo gli immobili ma anche le aziende, allora il fenomeno si trasforma in un vero e proprio caso. Cominciamo dai numeri, che già da soli indicano quanto delicata sia la situazione. Perché è tanto più cocente la delusione che deriva dal mancato reimpiego delle risorse e delle imprese che – grazie alle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura inquirente – si riesce a sottrarre alle mafie. In Italia le aziende confiscate sono 1.708 di cui 623 sono in Sicilia, 347 in Campania, 161 in Calabria e 131 in Puglia. Circa la metà operano tra commercio (471) e costruzioni (477), seguite da quelle alberghiere e dalla ristorazione (173). Tra le imprese confiscate, 497 sono uscite dalla gestione dell’Agenzia nazionale e liquidate. Delle 1.121 ancora gestite, invece, 393 sono ancora da destinare, 342 sono destinate alla liquidazione, 198 hanno un fallimento aperto durante la fase giudiziaria e per 189 è stata chiesta la cancellazione dal registro imprese e/o dall’anagrafe tributaria. Una situazione dinanzi alla quale è chiaro che c’è bisogno di un serio intervento per garantire la continuità d’impresa e salvaguardare i lavoratori. L’eccessiva burocrazia e la crisi economica che getta tutti in uno stato d’incertezza non può essere un alibi. E se è vero che la crisi facilita l’ingresso delle mafie nell’economia sana, è vero anche che devono essere messi in campo tutti gli strumenti per cambiare lo stato delle cose.
Dopo la fase del sequestro e della confisca non si può consentire che un’azienda fallisca. Quel fallimento coinvolge la credibilità delle istituzioni, il concetto di legalità nell’opinione pubblica che potrebbero ritenere la confisca come un danno più che un diritto. In quel fallimento si perdono posti di lavoro. E dire che di proposte sensate se ne fanno, e tante. Molte partono proprio dalle rete del volontariato e dell’associazionismo. Una per tutte: dare alle stesse associazioni presenti sul territorio la gestione di immobili e aziende confiscate.