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Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Davide Giacalone – Libero

L’Ilva di Taranto riconosce d’essere responsabile di disastro ambientale e chiede il patteggiamento. I proprietari dell’Ilva restano imputati e subiranno il processo. La cosa singolare, in una situazione surreale, è che l’Ilva è commissariata dal 2013, quindi sotto il controllo e il dominio del governo, il quale governo della Repubblica italiana, aveva negato il disastro ambientale, aveva esibito i documenti che testimoniavano sia la regolarità dell’operato della società, sia il progredire del piano di risanamento ambientale. Il quale risanamento era reso necessario non da quel che aveva fatto l’Ilva privatizzata, ma dal precedente proprietario: lo Stato. Provo a raccontare meglio, perché capisco che ci si possa confondere. Ma spero di non riuscirci, spero che nessuno capisca, perché se qualcuno legge, dall’estero, è la volta che in Italia non ci mette piede neanche per le vacanze.

La polemica

L’Ilva era dello Stato, l’hanno venduta ed è passata ai Riva. Si può discutere sul prezzo e sulle condizioni, ma non sul fatto che insediamento e inquinamento erano quelli generati dal proprietario pubblico. Arrivato il nuovo proprietario la produzione procede bene e l’impianto produttore di acciaio è profittevole. Con il governo è concordato un piano di risanamento ambientale, che il governo stesso sosteneva essere stato rispettato. Interviene la procura della Repubblica e praticamente blocca la produzione, contestando disastro ambientale e altri reati. Esegue sequestri che rendono impossibile la continuazione dell’attività. Il governo (allora Monti) interviene, con un decreto legge, per sbloccare il tutto. Fermo restando che, naturalmente, il procedimento penale va avanti.

Nuovo corso

Ma nel 2013 cambia non solo il governo, ma anche la dottrina, sicché la società viene commissariata e la proprietà estromessa. Motivazione: sono in crisi. Ma la crisi non è data dall’attività industriale, bensì dall’azione della procura e, al momento, siamo ancora solo all’udienza preliminare. Dopo il commissariamento quel che era profittevole va in perdita.

Intervento

I soldi destinati al risanamento prima c’erano e venivano spesi, poi non ci sono più. Le difficoltà così create al gruppo Riva, che non ha solo quell’impianto (che è il più grande d’Europa, con il forno più grande del continente, ora spento), portano all’intervento delle banche tedesche, con il che abbiamo anche favorito quelle. La produzione comincia a essere insufficiente e i clienti si lamentano. E, come se non bastasse, ora la gestione commissariale chiede il patteggiamento. Neanche hanno torto, perché così si tirano fuori da un processo dagli esiti incerti e minimizzano le possibili conseguenze negative. Peccato che agiscono a nome dell’Ilva perché colà messi dal governo. E peccato che i proprietari restano sotto processo, avendo la loro società che ammette il reato da loro e dal governo negato. Con il che si dimostra claudicante non solo la difesa del diritto di proprietà, teoricamente tutelato dalla Costituzione, ma anche quello a difendersi in un processo. Nel quale, naturalmente, non ho idea se siano colpevoli o innocenti. Nel primo caso spero siano condannati, ma nel secondo vorrei fosse chiaro che la pena la scontiamo e la paghiamo tutti, cittadini di uno Stato inaffidabile e sleale.

Natale in casa Ilva

Natale in casa Ilva

Davide Giacalone – Libero

Il Natale all’Ilva sarà l’epifania dello statalismo. Il futuro agognato consiste nel resuscitare il passato. Il nuovo che avanza s’acconcia al ritorno del vecchio che disavanza. Non si tratta di pensare male, ma di leggere bene: il 24 dicembre l’Ilva sarà nazionalizzata, con un’operazione ritenuta esemplare e, pertanto, da replicarsi anche in altri casi, a tale scopo adattando la Cassa depositi e prestiti. In una stagione in cui si dovrebbe privatizzare, dismettendo patrimonio pubblico per abbattere il debito, il governo ha in animo di far divenire pubblico quel che è privato. Dodici anni dopo la liquidazione dell’Iri si torna a volere lo Stato azionista. Diciannove anni dopo lo sbaraccamento dell’Italsider e la cessione dell’Ilva ai privati s’ingrana la retromarcia e si torna al punto di partenza.

Ciò che si deve leggere bene è l’intervista rilasciata dal presidente del Consiglio all’ottimo Claudio Cerasa, per Il Foglio. Il primo passaggio illuminante è quello in cui Matteo Renzi afferma che, ripresa la proprietà pubblica dell’Ilva, il prossimo 24, questa avrà lo scopo di “salvarla, rimetterla a regime e rivenderla in un arco di tempo che va dai due ai cinque anni”. A leggerla così sembrerebbe che la proprietà privata dell’Ilva era fallita, sicché, per salvare l’occupazione, lo Stato debba sacrificarsi. Ma non è così. La verità è che lo Stato può essere l’unico acquirente dell’Ilva per la semplice ragione che l’attività dell’acciaieria è interdetta dallo Stato stesso. Lo Stato ha bloccato l’acciaieria con la sua mano giudiziaria, raccattandola poi con quella finanziaria.

Noi non ci sostituiamo ai tribunali, né per accusare né per assolvere, il fatto è che qui il tribunale non s’è ancora visto. È la procura che ha progressivamente immobilizzato l’attività produttiva, al punto che il governo dovette intervenire con un decreto legge affinché l’intera attività non si fermasse. Gli esiti processuali li vedremo quando ci sarà un processo, ma quel che oggi innesca il ritorno dello Stato nella proprietà è proprio l’incertezza del diritto a potere produrre acciaio, incertezza indotta dall’azione dello Stato. Stanti così le cose, delle due l’una: o le azioni della procura si dimostreranno infondate, sicché si sarà proceduto a un esproprio senza alcuna ragione di diritto; oppure si dimostreranno ottime, quindi necessari investimenti ulteriori per la bonifica ambientale. Nel primo caso si sarà tradito un principio costituzionale, relativo alla tutela della proprietà. Nel secondo si spenderanno soldi pubblici per porre rimedio, senza alcuna garanzia che il risultato finale, fra due o cinque anni (ma l’esperienza insegna che i tempi s’allungano in modo inquietante), sarà vendibile e si troverà un acquirente. Perché il mercato corre e la dirigenza pubblica ha già dato costosa prova della propria incapacità a comprenderlo e seguirlo.

Tanto non si tratta di una spiacevole e passeggera necessità, bensì di una scelta ritenuta saggia e ripetibile, che, più oltre nell’intervista, Renzi dice, a proposito di Cassa depositi e prestiti: “anche attraverso l’operazione Ilva, in cui Cdp indirettamente collabora, credo sia necessario pensare a come farla cambiare e come renderla adatta a risolvere altre potenziali situazioni come quella di Taranto”. Chiarissimo: Cdp deve servire a far tornare alla grande lo Stato imprenditore. E siccome ti voglio vedere a rifiutare l’intervento laddove ci saranno fallimenti reali, ovviamente comportanti licenziamenti, quello che s’appronta è il tipico carrozzone di gestioni clientelari e fallimentari.

Già è pazzesco in sé, ma è anche l’esatto opposto di quel che si dovrebbe fare. La cosa di cui l’Ilva e Taranto hanno il più urgente bisogno è sapere se c’è stata attività criminale e se la produzione può continuare nella legalità. Su questo fronte il governo ritiene utile non accorciare i tempi, ma allungarli, come dimostrano le corbellerie dette a proposito della prescrizione. Siccome così nessuno può operare, raccatta i cocci e li mette in conto alla collettività. Non contento, afferma che è solo l’inizio e per il futuro ci stiamo attrezzando. Nel frattempo si va dicendo che quei fetenti dei burocrati europei non dovrebbero permettersi di rompere le scatole sui nostri conti e sul debito crescente. Lasciateci liberi di tornare al passato, con approccio nostalgico non privo di potenziali sdrucciolamenti: l’Iri (ditelo ai giovin toschi) non fu fondato sotto il governo di Amintore Fanfani, ma di Benito Mussolini.