La Ue non può avere la Germania contro
Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera
La decisione assunta giovedì scorso dalla Banca centrale europea è stata coraggiosa. Ed è una buona notizia. Ce n’è anche una cattiva, però: ed è che il coraggio della Bce non sembra, per ora, essere accompagnato da un’azione altrettanto decisa da parte di Bruxelles e dei governi nazionali su debito, investimenti e politica fiscale: azione che invece è un indispensabile complemento della politica monetaria. Se l’economia dovesse deludere anche nel 2015 e la Bce fosse lasciata sola a fornire gli stimoli necessari, le tensioni all’interno del Consiglio dell’istituto sarebbero difficilmente gestibili e l’Unione non sopravvivrebbe ad un governo della politica monetaria che vede la Germania in sistematica opposizione.
Acquistare titoli sovrani (il cosiddetto Quantitative easing) fino al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione — cioè finché i prezzi non torneranno a crescere ad un passo al di sotto, ma vicino al 2 per cento annuo — resta un avvenimento di rilevanza storica, con importanti conseguenze per il futuro del governo economico dell’Unione. L’avvenimento è storico perché il Qe combina, sempre, aspetti di pura politica monetaria (l’iniezione di liquidità sostiene i prezzi e spinge quindi al consumo) a aspetti cosiddetti fiscali. Metterlo in atto nell’eurozona, dove la moneta è comune ma l’autorità di bilancio (il «ministero del Tesoro») non è condivisa, è un esperienza per quanto necessaria, potenzialmente divisiva. L’acquisto, da parte della Bce, di titoli di debito sovrano diminuisce infatti il costo di rifinanziamento dello Stato e potenzialmente limita la disciplina esercitata dal mercato nei confronti dei Paesi con alto debito pubblico. Il problema – al centro delle preoccupazioni tedesche – è particolarmente rilevante nella situazione di oggi, in cui molti Paesi non solo della periferia dell’Unione, ma anche del suo «nocciolo» come la Francia, hanno un debito pubblico che continua a crescere in rapporto al prodotto interno lordo.
Se il debito di questi Paesi dovesse continuare ad espandersi, in quella che viene definita una «dinamica negativa», gli scenari possibili sarebbero due. Nel primo, la Bce continuerebbe ad acquistare titoli, sostituendosi così al mercato: questo genererebbe però un aumento incontrollato dell’inflazione e la perdita di credibilità della Banca centrale. Nel secondo scenario, invece, la Bce interromperebbe gli acquisti per non violare il suo obiettivo di inflazione e permetterebbe il default dei Paesi a rischio. In questo secondo caso, però, la Bce si troverebbe a pagare un prezzo elevato, particolarmente difficile da digerire per chi, tra i suoi azionisti, si trova nella condizione di creditore.
Il primo scenario è improbabile, date le attuali condizioni macroeconomiche e il vincolo posto dai Trattati sul limite dell’inflazione. Il secondo, cioè il caso di bancarotta di un Paese dell’Unione, pur essendo estremo, non è da escludere. Il problema è stato già sperimentato con la Grecia in passato, e una nuova discussione sulla rinegoziazione del debito e sullo stato della Bce come creditore ufficiale ritornerà sicuramente sul tavolo dopo la vittoria di Tsipras. Proprio per rispondere al problema posto dal secondo scenario, il Qe della Bce prevede che le banche centrali nazionali assumano una gran parte del rischio relativo agli acquisti. In altre parole, se uno Stato fallisse, il bilancio della sua banca centrale sarebbe colpito; e nel caso estremo in cui il capitale non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe intervenire, mettendo dunque i suoi cittadini nella condizione, di fatto, di «pagare il conto».
Questo aspetto del programma è stato criticato perché, limitando la condivisione del rischio, potrebbe far sorgere dubbi sull’impegno di tutti gli Stati a salvaguardare l’Unione. Ma in realtà questa è una discussione molto astratta. Il problema è un altro. Se a dover ristrutturare fossero più Paesi (o anche uno solo, ma con un grande debito) la sopravvivenza stessa dell’euro sarebbe a rischio e Francoforte dovrebbe intervenire per evitare il peggio. In caso contrario i costi sarebbero enormi: molto maggiori di quelli di cui si parla in relazione al Qe. La crisi ci ha insegnato che i Trattati portano a un paradosso: da una parte pongono molti limiti all’azione della Bce per evitare la monetizzazione del debito; dall’altra, quando l’euro è in pericolo, rendono inevitabile il suo intervento per assicurarne la sopravvivenza, rendendola implicitamente garante del debito di tutti e generando dunque un irrealistico appiattimento dello spread.
La Bce può uscire da questa alternanza tra bastone e carota solo chiedendo agli Stati a rischio un impegno su programmi di riforma. Ma la Grecia insegna che questa via è percorribile solo se le misure non sono eccessivamente punitive e si combinano con altre che favoriscano la crescita. Per questo il Qe è una buona notizia: una politica monetaria fortemente espansiva potrebbe facilitare e non inibire un percorso riformatore. Purché al coraggio della Bce si associ l’azione decisa di Bruxelles. Altrimenti si scaricherebbero sull’istituto di Francoforte le tensioni di una Germania all’opposizione, mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa Unione.