Non è più tempo di alibi
Massimo Gaggi – Corriere della Sera
Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non parla di «bazooka», di armi monetarie straordinarie per evitare la deflazione e battere le tendenze recessive che riemergono anche nelle economie europee più solide. Non lo fa perché non è una parola del suo vocabolario, ma, soprattutto, perché un’arma simile non esiste. Ci fosse, sarebbe il momento di usarla perché la situazione è veramente difficile. E la Banca centrale europea promette che, per quello che potrà fare, non si tirerà indietro: stretta tra crescente disoccupazione strutturale, economie che non crescono e vincoli di bilancio, l’Europa ha bisogno di interventi simultanei e massicci sia dal lato del sostegno alla domanda da attivare con le politiche monetarie e fiscali, sia da quello delle riforme strutturali.
È il momento di fare: in fretta e rischiando anche molto. È questo il cuore del messaggio che il capo della Bce trasmette ai colleghi banchieri centrali che lo ascoltano al simposio annuale di Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose, ma anche ai policymakers europei e ai mercati: «Il rischio di fare troppo è ormai nettamente inferiore a quello di fare troppo poco». Fare di più esponendo maggiormente la Bce, ma anche attuando politiche fiscali più coraggiose, coi governi chiamati a investire il loro capitale politico in strategie di riduzione delle tasse (soprattutto il cuneo fiscale) e della spesa pubblica, ma anche in riforme radicali del mercato del lavoro nei Paesi che oggi soffrono di maggiore rigidità: Draghi non cita mai l’Italia ma il riferimento è implicito, visto che l’esempio sul quale si sofferma è un confronto tra Spagna e Irlanda, con quest’ultima che si è ripresa più rapidamente dalla crisi anche grazie all’elevata flessibilità della manodopera che ha consentito alle imprese, nei momenti più difficili, di risparmiare sul costo del lavoro. La Spagna, rimasta troppo a lungo rigida, ha pagato l’incomprimibilità delle retribuzioni con un forte taglio degli occupati. Fino al 2012, quando Madrid ha cambiato rotta: oggi sta cogliendo i primi frutti della maggiore flessibilità.
L’Italia no. Draghi non lo dice e non solo per evitare nuove polemiche a Roma: a Jackson Hole è andato per parlare delle difficoltà di un’area, l’Europa, che rappresenta il più grande mercato mondiale e che fatica a difendere un modello sociale tanto prezioso quanto fragile. Il capo della Bce era atteso al varco anche da analisti non del tutto benevoli che imputano alla Bce alcuni errori di previsione e l’adozione di misure monetarie meno efficaci di quelle messe in campo dalla Federal Reserve.
Secondo questi critici proprio il confronto ravvicinato con Janet Yellen, l’economista succeduta pochi mesi fa a Ben Bernanke alla guida della Fed (ha parlato a Jackson Hole qualche ora prima di Draghi), avrebbe dovuto far emergere il contrasto stridente tra le due situazioni: l’America in ripresa e con l’occupazione in crescita ormai da cinque anni consecutivi che sta per azzerare i sostegni straordinari offerti all’economia sotto forma di acquisto di titoli pubblici e obbligazioni private sul mercato. E che si prepara ad aumentare, nel 2015, il costo del denaro, pressoché azzerato ormai da sei anni.
In realtà la Yellen, pur confermando le scelte di fondo della Banca centrale Usa e riconoscendo che i numeri ufficiali del mercato del lavoro cominciano a muoversi verso uno scenario di piena occupazione, ha dato un’interpretazione della realtà economica americana molto più problematica e allarmata: i 19 indicatori sui quali la Fed basa le sue valutazioni dicono che il calo della disoccupazione è sovrastimato e che il mercato del lavoro è ancora molto problematico. Chi si aspettava che la Fed potesse accelerare il percorso verso l’aumento del costo del denaro è rimasto deluso. La Yellen non intende anticipare gli interventi in questo campo: se ne parlerà, pare di capire, a metà dell’anno prossimo, non prima.
Da un punto di vista strettamente monetario la cosa non è molto positiva per la Ue visto che potrebbe attenuare la corsa al rafforzamento del dollaro che indebolisce l’euro e rende le nostre merci più competitive. Ma con la sua analisi la Yellen ha anche dimostrato che, pur essendosi mossa meglio, l’America si dibatte tuttora negli stessi problemi che affliggono l’Europa. Niente mal comune mezzo gaudio, ma in questo contesto è più facile per Draghi spiegare perché in Europa tutto è stato molto più difficile: dalle impostazioni divergenti dei vari governi al fatto che il primo choc, quello del sistema creditizio nel 2008, è stato seguito da un secondo trauma, quello dei debiti sovrani dei Paesi più deboli, che ha «gelato» di nuovo l’occupazione europea quando ormai quella Usa era in pieno recupero. Ma, soprattutto, è stato più facile per Draghi concentrarsi sul pesante carnet delle cose da fare.
Il capo della Bce ha parlato molto più di politiche fiscali e del lavoro che di interventi monetari: un’occasione ghiotta per chi vuole alimentare polemiche fini a se stesse. In realtà Draghi ha ribadito quello che per anni Bernanke ha ripetuto davanti al Congresso di Washington: la politica monetaria può fare molto, ma non può sostituire gli interventi dei governi e le riforme strutturali indispensabili per affrontare le sfide di un mondo completamente cambiato sia per quanto riguarda la dislocazione geografica del reddito e delle capacità produttive, sia per il cambiamento di prodotti e tecnologie. La Bce farà la sua parte, ha promesso Draghi senza entrare in dettagli (acquistare obbligazioni sul mercato, ad esempio, è più difficile per l’Eurotower che per la Fed alla quale nessuno ha mai chiesto di non sottoscrivere troppi titoli della California o del Kansas). E l’indebolimento dell’euro indica che i primi risultati di questa politica già ci sono. Ma se si vuole davvero aggredire una disoccupazione strutturale che può diventare irreversibile dobbiamo tutti rischiare molto di più: governi, parlamenti, sindacalisti. E, inevitabilmente, anche noi cittadini.