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Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

di Uccio Silvestri

Ricordate “il lato oscuro dell’accertamento”? Lo aveva evocato il 1^ marzo scorso la direttrice delle Entrate, Rossella Orlandi, agitando quasi una minaccia verso chi, contattato con le buone (tramite cartolina postale), si era rifiutato di pagare nonostante un maxi-sconto sulla sanzione (si veda qui). Ora si scopre che per la illustre direttrice si è trattato di una svista, non all’altezza del prestigioso ruolo. Perché esattamente due anni fa questi ponti d’oro erano stati lanciati, dalla legge di stabilità 2015, verso quella stessa categoria di partite Iva che già in passato, nel 90% dei casi, aveva fatto orecchie da mercante. Senza mai abboccare, neppure di fronte alla notifica, assai più minacciosa, di un vero e proprio accertamento (peraltro, in quel caso, a prezzo aumentato del 70-80 per cento, mancando ivi gli sconti sulle sanzioni).

Tornando alla Orlandi, il riferimento è alla recente ammissione di fallimento della operazione di compliance relativa al cosiddetto spesometro. Alla quale hanno aderito – secondo i deludenti dati rivelati il 1^ marzo scorso – solo 817 soggetti su 13.626 (il 6%). Questi esiti, tuttavia, erano scontati. Bastava tener presente le informazioni, interne alle stesse Entrate, pubblicate da un documento della Corte dei Conti del 31 ottobre 2013 (deliberazione n. 8/2013/G). E, infatti, su questa base, non fu difficile per un esperto azzeccare il pronostico con due anni di anticipo: “squadrature in elenco clienti: un buco nell’acqua in arrivo” era il titolo dell’ultimo paragrafo pubblicato il 10 novembre 2014 (vedi qui). “Siamo di fronte a un ennesimo abbaglio che non porterà mai nulla nelle casse dello Stato” si legge un mese dopo, all’interno di questo articolo.

Il primo errore, per l’appunto, lo aveva fatto il Governo nel disegno di legge di stabilità per il 2015. Il ddl, infatti, puntò sui recuperi da spesometro, pronosticando incassi facili e iscrivendo, fra le entrate certe in arrivo (a copertura di nuove spese), quasi un miliardo all’anno. Per meglio capire come stanno le cose è utile leggere qui, pagine da 225 a 229, la Relazione tecnica relativa all’articolo 44, commi da 11 a 18, dell’originario ddl. Il commento tecnico ufficiale corrisponde in toto al testo confluito nei commi da 634 a 642, dell’articolo 1 della legge n. 190 del 2014. La predetta legge di stabilità, tuttavia, ignorò il fatto che qualche anno addietro una identica operazione (riguardante gli elenchi clienti 2006-2007) era già stata effettuata dalle Entrate. Ma con esiti disastrosi. E in riferimento proprio agli addebiti da squadratura in elenco fornitori (oggi l’elenco fornitori è stato ribattezzato con il nome di “spesometro”). Una operazione che, in via bonaria, aveva fruttato appena 130 milioni di incassi (il 2%) su un totale addebitato di 8,3 miliardi. Non solo, ma il fatto più grave è che, all’epoca, il 90% degli accertamenti notificati non furono né pagati, né – soprattutto – furono impugnati dai destinatari, nonostante gli addebiti (per la ragguardevole cifra di 7,5 miliardi) avessero in pancia tanto di sanzione piena.

Tutto questo, peraltro, avvenne mica per una quantità sparuta di contribuenti. Su un totale di 92mila imprese inadempienti, ben 78mila (l’equivalente di uno stadio gremito) avevano tenuto, tutti allo stesso modo, un comportamento vistosamente abnorme, nel senso che, semplicemente, avevano ignorato l’accertamento. Segno incontrovertibile che in questo caso non avevi di fronte la parte sana delle imprese (cioè, i “veri” commercianti, gli artigiani, gli industriali), ma cosiddette “teste di legno” o scatole vuote. E’ stata pertanto una forma di “distrazione grave” non accorgersi, nella legge di stabilità, che dietro questo fenomeno si nasconde una platea fittizia, che mai potrà reagire alla stregua di un imprenditore in carne e ossa. Il caso dei 78mila nullatenenti che si son fatti beffa dell’accertamento, invece, rivela che alle spalle del fenomeno massivo, svelato grazie alla Corte dei Conti, si nasconde una realtà sommersa meglio nota come “evasione da riscossione”. Un fenomeno grave, ormai diffusissimo. Delinquenza fiscale allo stato puro che da oltre 15 anni cresce vertiginosamente di anno in anno, per via della più totale impunità garantita dal sistema vigente. Impunità ottenuta da fronde incontrollate di colletti bianchi capaci di blindare a monte l’intangibilità del proprio patrimonio con l’antica e banale tecnica della intestazione fittizia. Una brutta storia tutta italiana che, per gli ultimi tre lustri, pesa a conti fatti molto più di un centinaio di miliardi sul bilancio dello Stato. Ecco spiegato il perché, dopo 15 anni di Equitalia, lo Stato si ritrova ad aver incassato poche briciole dal contrasto all’evasione: il 4,4 per cento di quanto inizialmente addebitato. E’ andata molto meglio all’Inps, a esempio, che vanta un tasso di riscossione coattiva che è triplo rispetto alle Entrate. Come dire che nel recupero crediti tramite Equitalia, l’Inps è stata “più fortunata” intercettando solo un terzo della quantità di nullatenenti che ha invece incrociato l’Agenzia delle Entrate – si veda qui. Ed ecco perché, ora, siamo arrivati al punto che le Entrate dovranno mandare al macero ben 700 miliardi di crediti inesigibili, tutti intestati a soggetti fittizi (vedi qui). Non ha avuto molto senso, pertanto, l’aver tappezzato il Paese con 800 miliardi di accertamenti, e poi di cartelle Equitalia e poi ancora di pignoramenti, quando, alla fine della fiera, vieni a scoprire che, praticamente, il 90 per cento del lavoro è stato svolto a vuoto.

E’ un fenomeno che è sfuggito di mano alla Governance fiscale degli ultimi anni, ed è tuttora ignorato dalla politica e dalla stessa Amministrazione finanziaria. La quale si limita a reagire, oggi come 15 anni fa, con la inutile tiritera dell’azione repressiva postuma, che, ovviamente, interviene a cose fatte, quando ormai i buoi sono scappati da un pezzo. Non vi poteva essere arma più innocua verso questo tipo di delinquenza fiscale. Su questo tema, peraltro, il segnale di allarme era stato lanciato dalla Corte dei Conti, ben oltre il perimetro dell’elenco fornitori, almeno cinque anni fa (si veda la alla deliberazione n. 8/2011/G del 13 luglio 2011). I numeri parlano da soli. Guardando dentro il documento contabile si apprende che su un totale di 1,7 milioni di accertamenti (il cento per cento di quanto notificato nel quinquennio 2006-2010), 650mila (38%) sono stati ignorati dai destinatari. Il che, in termini di valore, ha significato, altresì, che su un totale addebitato di 202 miliardi (sanzioni comprese), la quota degli accertamenti per evasione fiscale rimasti privi di reazione, e dunque “nati morti” all’origine, è stata di 99 miliardi, pari al 49 per cento del totale.

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

di Mino Rossi

Il dato è ormai stabilizzato. Dal 2011 in avanti l’Agenzia delle Entrate aumenta ogni anno di 65 miliardi il magazzino dei crediti forzosi di Equitalia (vedasi qui Corte dei Conti, Rendiconto generale 2015 vol. I, pagina 76, Tavola 3.12). Stando alla prassi ultradecennale, tuttavia, si tratta di somme che frutteranno all’erario una quota pressoché simbolica: meno del 10 per cento, e per di più diluiti in un tempo infinito (10-15 anni). Nel 2015, ad esempio, gli incassi forzosi, per la catasta di accertamenti insoluti degli ultimi 15 anni, sono stati appena 1,8 mld, rateazioni comprese.

E così, a passo di lumaca, di fronte a un ammontare da riscuotere di 800 mld, ne sono stati incassati 35, mentre 700 mld (l’87%) si sa già che sono destinati al macero per inesigibilità (ne abbiamo parlato qui). Com’è intuibile, la consistenza vistosamente “marziana” di quest’ultima cifra non poteva che ingolfare il sistema, che da anni è pericolosamente fuori controllo, specie riguardo al funzionamento delle garanzie di imparzialità e di effettività dei recuperi.  Nel senso che né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, sono materialmente in grado di rilasciare il cosiddetto discarico dei crediti inesigibili. E questo significa che – a causa di una sorta di overbooking – nessuno più oggi sorveglia sul fatto che in questo spaventoso mare magnum di partite da cestinare, non si ritrovino infilati, magari senza volerlo, fronde di intestatari-evasori viceversa ricchi e possidenti.

I numeri visti sopra sembrano appartenere a un altro pianeta, altro che tesoretto! C’è da chiedersi davvero se gli altissimi costi di sistema, compresi quelli sulla tenuta sociale, non superino i vantaggi monetari, che, come visto, sono (e saranno) sempre esigui. D’altro canto, è evidente che il tappezzare di cartelle Equitalia tutto il Paese non poteva che deprimere l’economia piuttosto che risollevarla. Soprattutto se lo hai fatto in forma massiva e a casaccio, come ha dimostrato di fare, del tutto incolpevolmente – e nonostante gli elevati livelli di professionalità raggiunti (è bene chiarirlo) – l’Agenzia delle Entrate.

Prendiamo a esempio, il tasso di errore delle somme date in riscossione forzosa. In un normale sistema, quando vai ad armare la mano del “fuciliere”-Equitalia, autorizzandone l’esercizio di poteri letali sulla incolumità patrimoniale dei destinatari, non dovrebbero essere tollerati errori superiori allo zero virgola zero. E, invece, è successo che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver consegnato all’esattore un elenco sconfinato di condanne a “morte economica” (oltre 150 milioni di posizioni, tre per ogni italiano, neonati compresi), ha cancellato il debito, fuori tempo massimo, nel pieno svolgersi della fase esecutiva. E lo ha fatto per una cifra stratosferica: 180 mld, pari al 22% del carico.

L’entità dell’errore non lascia adito a dubbi. Non può essere che l’Agenzia fiscale sia incorsa in uno svarione megagalattico. Trattasi, piuttosto, di segno evidente che la riscossione forzata ha in pancia problemi enormi. Il più rilevante dei quali è dato dal tasso di imprecisione oggettivo della cifra originaria da riscuotere. Una imprecisione che, a sua volta, dipende dal carattere strutturalmente inagguantabile, e oggettivamente ballerino, del quantum evaso.Se riguardasse solo una percentuale ridotta di casi, l’anomalia non avrebbe riverberi e questo non sarebbe un problema per il sistema. Ciò che preoccupa, invece, è che il “vizio” della approssimazione è presente nella stragrande maggioranza dei casi, essendo diventato fenomeno di massa.

E, invero, tolte le situazioni di morosità in dichiarazione (dove, è ovvio, la cifra in riscossione ha “fisiologicamente” un tasso di precisione del cento per cento), negli altri casi, che rappresentano forse i due terzi del carico, si viene chiamati da Equitalia per una cifra presuntiva, e dunque per un quantum, “sistematicamente” inficiato a monte da un tasso di imprecisione elevato. L’altra cosa paradossale è che, mentre sui crediti granitici (morosità in dichiarazione) la penalità è del 30 per cento, è invece quattro volte tanto, la sanzione applicata agli addebiti presuntivi. Ciò nonostante che, in questi ultimi casi, la base di calcolo – cioè, l’imposta evasa – resta niente più che una ipotesi (per quanto qualificata e assolutamente probabile).

La responsabilità di tutto questo non può che essere nelle procedure di legge: sono esse il problema. Te ne accorgi anche da una controprova: in sede di accertamento con adesione, l’Agenzia delle Entrate, in ossequio alle regole vigenti, fa in molti casi dietrofront e si autoriduce l’evasione accertata, applicando uno sconto del 44 per cento. Non si tratta di situazioni sporadiche, ma della riduzione media applicata a circa un quinto del plafond accertato. A dimostrazione che la stessa Agenzia “sa” dell’alto tasso di approssimazione che è insito nei suoi “prodotti”. Per il 2014, a esempio, un’evasione inizialmente quantificata in 4,391 mld, in adesione è stata autoridotta dalle Entrate a 2,459 mld (somma riferita a solo imposte – vedasi qui il Rapporto sui risultati del contrasto all’evasione – Tabella I.16 pagina 15).

Ecco perché, quindi, al di là della regolarità formale degli atti mandati in riscossione, si può dire che l’esiguità degli incassi è anche dovuta alla intrinseca dubbiosità (anzi, ancor più, della dubbiosità percepita) del quantum accertato. Un problema, quest’ultimo, dovuto all’errore di aver consentito – come regola, piuttosto che come eccezione – la diffusione della comoda scorciatoia dell’accertamento presuntivo. Benché prevista per legge, infatti, questo tipo di procedura già di per sé costituisce sanzione assai grave. Proprio per gli effetti che ne derivano, anch’essi letali, pertanto, essa andrebbe piuttosto utilizzata solo in casi eccezionali e dopo il superamento di alcuni filtri. Così era nello spirito saggio della riforma dei primi anni ’70 (legge 825 del 1971), che aveva puntato sul cosiddetto accertamento induttivo, ma solo per casi eccezionali, in presenza di scorrettezze contabili molto gravi, e dopo averne verificato de visu le prove, in sede di controllo in flagrante (vidimazioni periodiche, tempestività e regolarità delle annotazioni contabili, eccetera).

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

di Mino Rossi

Sono due le cifre che risaltano leggendo le anticipazioni della Corte di Conti pubblicate il 23 giugno scorso sui risultati conseguiti dalle Entrate, nel 2015, circa le attività di contrasto alla evasione fiscale (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 vol. I – vedasi qui). Oltre 65 mld di euro consegnati a Equitalia per la riscossione forzosa. Ed oltre 14 miliardi già riscossi. Si veda sotto la tabella di sintesi dei risultati 2015, con particolare riferimento a:
– arretrati recuperati da Equitalia (4,3 mld, Tab.3),
– pagamenti tardivi post-dichiarazione (altri 4,3 mld, Tab.2),
– incassi immediati per accertamenti con adesione (5,6 mld, Tab.1).

E’ utile rimarcare la distinzione fra tasse nascoste al Fisco (le sole che, propriamente, possono dirsi “evase”), rispetto al caso diverso della semplice morosità, che si ha quando il contribuente, previa dichiarazione poniamo di un debito per 100, versa poco o nulla allo Stato (può accadere per momentanea difficoltà, ma anche a seguito di precisa strategia dolosa).  Un dato inedito di rilievo concerne invece il 2013, che è l’anno più recente disponibile al riguardo: l’ammontare dei mancati pagamenti in dichiarazione è stato di quasi 16 mld. Siamo tuttavia in un trend in forte crescita, dato che quattro anni prima, il 2009, l’ammontare annuo era di 4 mld in meno (vedasi sotto Tab.2 e, per la fonte, qui – pagina 45, Tavola 2.21).

Da rimarcare che questo accade anche per via della convenienza ad auto-finanziarsi a spese del Fisco, consentita in questi ultimi anni per via delle politiche di compliance. Che ti lanciano ponti d’oro, purché alla fine – quando che sia – ti decidi a pagare. Un esempio è quello del cosiddetto “ravvedimento operoso lunghissimo”, che ti consente di sanare il tutto, praticamente al prezzo di un finanziamento competitivo: anche se ti ravvedi dopo qualche anno dalla scadenza di legge, infatti, lo Stato ha recentemente deciso di applicare una penalità fissa pari al 5% delle somme che avevi omesso di versare.

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Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

di Mino Rossi

A pochi giorni dalla pubblicazione dei due dossier sulle criticità di funzionamento del Fisco italiano, a cura delle massime istituzioni internazionali (Ocse-Fmi – vedasi qui), tornano assai preziosi i dati pubblicati il 23 giugno scorso  dalla benemerita “nostra” Corte dei Conti (vedasi qui Rendiconto generale dello Stato  per il 2015, vol. I).

Dati che ci aiutano in primis a capire, fra le altre criticità, un’anomalia, tutta italiana, riferita al comparto delle Entrate. Incrementatasi, col passaparola, a partire dai primi anni 2000, e che ha raggiunto oggi le dimensioni di una zavorra annua fatta di ruoli per qualche decina di miliardi. I quali nascono inesigibili in partenza, poiché riferiti ad accertamenti intestati o a persone nullatenenti o a società fantasma (parliamo di circa il 40% del carico lordo).

Dimensioni e gravità del fenomeno erano già note, grazie ad alcuni  dossier elaborati in passato dalla Corte dei Conti. Ma il documento di recente pubblicato conferma che il problema è  ancora lì, irrisolto. E lo rivela un dettaglio non da poco: nel 2015, infatti,  sono stati circa 90mila, su un totale di 300mila, gli accertamenti lavorati e notificati dalle Entrate nella indifferenza dei loro destinatari. I quali non hanno né impugnato, né pagato alcunché. Il valore della relativa imposta evasa accertata, al netto delle sanzioni, è stato pari a 7,6 mld (vedasi qui Rendiconto generale 2015 vol. I, pagine 37 e 38, Tavole 2.11 e 2.12).

Ma la novità più grande si rinviene incrociando questi ultimi dati con quelli comunicati il 9 febbraio 2016 alla Commissione Finanze del Senato, nella Audizione resa dall’amministratore delegato di Equitalia. Nella Tabella da noi elaborata sono stati messi a confronto fra loro gli esiti della riscossione coattiva: quella su mandato della Agenzia delle Entrate, e quella ad opera dell’Inps (insieme, i due Enti coprono l’89% del totale di 1.051 mld di ruoli consegnati a Equitalia).

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La Tabella è molto eloquente. Perché, non solo conferma che il carico iniziale delle Entrate è  davvero stratosferico (800 mld di euro, in quindici anni). Ma, anche perché, essa dimostra che la quota Entrate del “magazzino insoluti”, ovvero la parte ufficialmente destinata al macero, ad oggi “pesa” 700 mld, l’87% della cifra iniziale (cifra che in futuro può solo amentare). Inoltre, al confronto con l’Agenzia fiscale, l’Inps (che di certo non è l’Ente più virtuoso al mondo) sembra la Scandinavia. Con una percentuale di 20,8 punti in meno del magazzino insoluti.  E incassi del 15,8 per cento, che triplicano, quasi, il 4,4 delle Entrate. Vale a dire che se i crediti partoriti dall’Agenzia fiscale avessero ottenuto lo stesso tasso di riscossione (più 11,4%) lo Stato avrebbe introitato fino a oggi 90 mld di euro in più.

Il combinato disposto di dati così univoci e convergenti, dunque, costituisce prova del fatto che la prima emergenza da affrontare nel Fisco italiano è il dilagare incontrollato (e incontrollabile, a normativa vigente) della cosiddetta evasione da riscossione. Fenomeno delinquenziale diffusissimo, oramai, preordinato con sistematicità da abili colletti bianchi capaci di blindare a monte la propria impunità patrimoniale, neutralizzando ogni futura azione esecutiva di Equitalia.

Il tutto nascondendosi dietro grappoli di società fittizie – del tipo “apri e chiudi” – che solo momentaneamente appaiono in regola. E che si passano tra loro il testimone, dopo pochi mesi di vita, prima di scomparire nel nulla (magari spostando la sede legale in un paradiso fiscale). Nel mentre, gli sconosciuti burattinai (destinati quasi sempre a rimanere anonimi) ci sguazzano per davvero, affogando nella enorme liquidità illecita loro consentita dalle vendite commerciali esentasse. Vendite effettuate camaleonticamente alla pari, nel mercato legale, dove però tutte le altre aziende, quelle sane, sono spinte fuori mercato poiché esse i contributi Inps non li compensano certo con crediti d’imposta fasulli, mentre l’Iva, l’Ires, l’Irap e le addizionali, li versano fino all’ultimo euro. Puntualmente.

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

di Mino Rossi

Gli incassi veri, in proporzione, sono da guardare al microscopio. Dal 2000 al 2015 l’Agenzia delle Entrate ha consegnato a Equitalia addebiti da riscuotere, gravanti su famiglie e imprese, per la cifra monstre di 795 miliardi di euro.

Tuttavia, dopo contenziosi, cartelle, pignoramenti e notifiche, la riscossione ha fruttato, in sedici anni, incassi pari a 35 miliardi (praticamente, il 4,4 per cento). Sono questi i dati recentemente diramati dalla Corte dei Conti (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 del 23 giugno 2016 – volume I pagina 30, Tavola 1.7 – vedi qui).

Inoltre, la quota del “magazzino insoluti” che Equitalia stessa valuta come non più riscuotibile – a causa di pignoramenti andati a vuoto, sgravi, fallimenti, ditte cessate, nullatenenti, eccetera – ad oggi è pari a 694 miliardi (cifra che in futuro potrà ulteriormente aumentare). Il dato risulta a tabella 3 allegata al testo della Audizione del 9 febbraio 2016 presso la Commissione Finanze del Senato dell’amministratore delegato di Equitalia (vedi qui). Una cifra pazzesca, quindi! Destinare al macero quasi il 90% del carico iniziale da riscuotere significa che tutta la macchina del contrasto è tutt’altro che affidabile e gira a vuoto.

Inoltre, stando alle intenzioni trapelate di recente, in Equitalia non ci sarà nessuno che certifichi l’inesistenza, fra i crediti inesigibili cestinati, di soggetti in realtà ricchi e possidenti. E questo, soprattutto di fronte a una cifra così ingente, sarebbe un fatto assolutamente inammissibile.

E’ indubbio, tuttavia, che questi numeri incredibili sono la spia di una gravissima crisi di funzionamento di un sistema che già da un pezzo è oltre la soglia del collasso.

Una delle principali anomalie che sono alla base di tutto questo, è nel fatto che la macchina di contrasto all’evasione di massa, anziché dedicarsi ai controlli, soprattutto negli ultimi lustri si è concentrata solo sugli accertamenti, la maggior parte dei quali basati su cifre ipotetiche, per legge calcolate presuntivamente.

I due concetti, però (accertamento e controllo), non sono la stessa cosa. Per funzionare, sono indispensabili entrambe le fasi: il controllo che è attività contestuale (che sorveglia e previene), e l’accertamento che invece è attività postuma (che punisce e reprime).

Quando si dice “l’Agenzia delle Entrate ha fatto 302mila controlli” (è questo il dato 2015), non è vero. Si tratta di 302mila accertamenti, eseguiti, al contrario, in assenza di qualunque controllo “in flagrante”. E, per questo, strutturalmente inficiati, nella maggior parte dei casi, da un inconveniente non da poco. E cioè di essere un tantino approssimativi nel quantum (trattandosi di accertamenti presuntivi).

Il Fisco italiano, inoltre, è l’unico in cui la macchina di contrasto è fuorviata dalla ossessione diffusa – purtroppo ingannevole e anche assai controproducente per le casse erariali – dei cosiddetti recuperi da evasione. Destinando però agli accertamenti il cento per cento delle risorse dedicate, esso dimentica che siamo in un sistema basato sull’autotassazione, per cui il suo compito primo è solo di fare controlli (non incassi).

Dal punto di vista di chi presiede alla governance, peraltro, si può dire che il controllo è “fatica” (con pochi poteri), mentre l’accertamento è “potere”, potere di presumere, quando il Fisco non è stato in grado di provare la cifra evasa (ciò che avviene nella maggior parte dei casi).

La metafora del calcio può aiutare. Per far funzionare questo sport servono sì le squalifiche in differita e a tavolino (fase della repressione). Ma, prima ancora di questo, serve in campo un arbitro che faccia l’arbitro (fase della prevenzione). In altre parole, serve una persona che corre e suda dietro il pallone e che fotografa da due passi i fatti di gioco (dove i margini di discrezionalità sono minimi). Per poi trasferire questa fotografia nelle mani di colui che, in presenza di fatti gravi oggettivamente provati – deciderà chi e come squalificare (avvalendosi solo a questo punto – ma in via eccezionale – di poteri discrezionali praticamente illimitati).

Nel Fisco italiano, invece, succede da sempre che la partita si gioca senza arbitro. Il controllore (l’Agenzia delle Entrate) o non c’è proprio (97% dei casi), oppure, quando c’è (3%), osserva la partita lontano dal campo di gioco (il riferimento è agli accertamenti emessi in differita di alcuni anni). Eppure, non è difficile rendersi conto che quando non c’è nessuno che sorveglia, le partite (quasi tutte le partite) non possono che finire in rissa.

Ecco perché si può dire, fuor di metafora, che in un sistema così architettato l’aumento della evasione di massa è garantito a vita, essendo esso la precondizione necessaria senza la quale un meccanismo così non può esistere.