agenzia delle entrate

Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

di Uccio Silvestri

Ricordate “il lato oscuro dell’accertamento”? Lo aveva evocato il 1^ marzo scorso la direttrice delle Entrate, Rossella Orlandi, agitando quasi una minaccia verso chi, contattato con le buone (tramite cartolina postale), si era rifiutato di pagare nonostante un maxi-sconto sulla sanzione (si veda qui). Ora si scopre che per la illustre direttrice si è trattato di una svista, non all’altezza del prestigioso ruolo. Perché esattamente due anni fa questi ponti d’oro erano stati lanciati, dalla legge di stabilità 2015, verso quella stessa categoria di partite Iva che già in passato, nel 90% dei casi, aveva fatto orecchie da mercante. Senza mai abboccare, neppure di fronte alla notifica, assai più minacciosa, di un vero e proprio accertamento (peraltro, in quel caso, a prezzo aumentato del 70-80 per cento, mancando ivi gli sconti sulle sanzioni).

Tornando alla Orlandi, il riferimento è alla recente ammissione di fallimento della operazione di compliance relativa al cosiddetto spesometro. Alla quale hanno aderito – secondo i deludenti dati rivelati il 1^ marzo scorso – solo 817 soggetti su 13.626 (il 6%). Questi esiti, tuttavia, erano scontati. Bastava tener presente le informazioni, interne alle stesse Entrate, pubblicate da un documento della Corte dei Conti del 31 ottobre 2013 (deliberazione n. 8/2013/G). E, infatti, su questa base, non fu difficile per un esperto azzeccare il pronostico con due anni di anticipo: “squadrature in elenco clienti: un buco nell’acqua in arrivo” era il titolo dell’ultimo paragrafo pubblicato il 10 novembre 2014 (vedi qui). “Siamo di fronte a un ennesimo abbaglio che non porterà mai nulla nelle casse dello Stato” si legge un mese dopo, all’interno di questo articolo.

Il primo errore, per l’appunto, lo aveva fatto il Governo nel disegno di legge di stabilità per il 2015. Il ddl, infatti, puntò sui recuperi da spesometro, pronosticando incassi facili e iscrivendo, fra le entrate certe in arrivo (a copertura di nuove spese), quasi un miliardo all’anno. Per meglio capire come stanno le cose è utile leggere qui, pagine da 225 a 229, la Relazione tecnica relativa all’articolo 44, commi da 11 a 18, dell’originario ddl. Il commento tecnico ufficiale corrisponde in toto al testo confluito nei commi da 634 a 642, dell’articolo 1 della legge n. 190 del 2014. La predetta legge di stabilità, tuttavia, ignorò il fatto che qualche anno addietro una identica operazione (riguardante gli elenchi clienti 2006-2007) era già stata effettuata dalle Entrate. Ma con esiti disastrosi. E in riferimento proprio agli addebiti da squadratura in elenco fornitori (oggi l’elenco fornitori è stato ribattezzato con il nome di “spesometro”). Una operazione che, in via bonaria, aveva fruttato appena 130 milioni di incassi (il 2%) su un totale addebitato di 8,3 miliardi. Non solo, ma il fatto più grave è che, all’epoca, il 90% degli accertamenti notificati non furono né pagati, né – soprattutto – furono impugnati dai destinatari, nonostante gli addebiti (per la ragguardevole cifra di 7,5 miliardi) avessero in pancia tanto di sanzione piena.

Tutto questo, peraltro, avvenne mica per una quantità sparuta di contribuenti. Su un totale di 92mila imprese inadempienti, ben 78mila (l’equivalente di uno stadio gremito) avevano tenuto, tutti allo stesso modo, un comportamento vistosamente abnorme, nel senso che, semplicemente, avevano ignorato l’accertamento. Segno incontrovertibile che in questo caso non avevi di fronte la parte sana delle imprese (cioè, i “veri” commercianti, gli artigiani, gli industriali), ma cosiddette “teste di legno” o scatole vuote. E’ stata pertanto una forma di “distrazione grave” non accorgersi, nella legge di stabilità, che dietro questo fenomeno si nasconde una platea fittizia, che mai potrà reagire alla stregua di un imprenditore in carne e ossa. Il caso dei 78mila nullatenenti che si son fatti beffa dell’accertamento, invece, rivela che alle spalle del fenomeno massivo, svelato grazie alla Corte dei Conti, si nasconde una realtà sommersa meglio nota come “evasione da riscossione”. Un fenomeno grave, ormai diffusissimo. Delinquenza fiscale allo stato puro che da oltre 15 anni cresce vertiginosamente di anno in anno, per via della più totale impunità garantita dal sistema vigente. Impunità ottenuta da fronde incontrollate di colletti bianchi capaci di blindare a monte l’intangibilità del proprio patrimonio con l’antica e banale tecnica della intestazione fittizia. Una brutta storia tutta italiana che, per gli ultimi tre lustri, pesa a conti fatti molto più di un centinaio di miliardi sul bilancio dello Stato. Ecco spiegato il perché, dopo 15 anni di Equitalia, lo Stato si ritrova ad aver incassato poche briciole dal contrasto all’evasione: il 4,4 per cento di quanto inizialmente addebitato. E’ andata molto meglio all’Inps, a esempio, che vanta un tasso di riscossione coattiva che è triplo rispetto alle Entrate. Come dire che nel recupero crediti tramite Equitalia, l’Inps è stata “più fortunata” intercettando solo un terzo della quantità di nullatenenti che ha invece incrociato l’Agenzia delle Entrate – si veda qui. Ed ecco perché, ora, siamo arrivati al punto che le Entrate dovranno mandare al macero ben 700 miliardi di crediti inesigibili, tutti intestati a soggetti fittizi (vedi qui). Non ha avuto molto senso, pertanto, l’aver tappezzato il Paese con 800 miliardi di accertamenti, e poi di cartelle Equitalia e poi ancora di pignoramenti, quando, alla fine della fiera, vieni a scoprire che, praticamente, il 90 per cento del lavoro è stato svolto a vuoto.

E’ un fenomeno che è sfuggito di mano alla Governance fiscale degli ultimi anni, ed è tuttora ignorato dalla politica e dalla stessa Amministrazione finanziaria. La quale si limita a reagire, oggi come 15 anni fa, con la inutile tiritera dell’azione repressiva postuma, che, ovviamente, interviene a cose fatte, quando ormai i buoi sono scappati da un pezzo. Non vi poteva essere arma più innocua verso questo tipo di delinquenza fiscale. Su questo tema, peraltro, il segnale di allarme era stato lanciato dalla Corte dei Conti, ben oltre il perimetro dell’elenco fornitori, almeno cinque anni fa (si veda la alla deliberazione n. 8/2011/G del 13 luglio 2011). I numeri parlano da soli. Guardando dentro il documento contabile si apprende che su un totale di 1,7 milioni di accertamenti (il cento per cento di quanto notificato nel quinquennio 2006-2010), 650mila (38%) sono stati ignorati dai destinatari. Il che, in termini di valore, ha significato, altresì, che su un totale addebitato di 202 miliardi (sanzioni comprese), la quota degli accertamenti per evasione fiscale rimasti privi di reazione, e dunque “nati morti” all’origine, è stata di 99 miliardi, pari al 49 per cento del totale.

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

di Mino Rossi

Il dato è ormai stabilizzato. Dal 2011 in avanti l’Agenzia delle Entrate aumenta ogni anno di 65 miliardi il magazzino dei crediti forzosi di Equitalia (vedasi qui Corte dei Conti, Rendiconto generale 2015 vol. I, pagina 76, Tavola 3.12). Stando alla prassi ultradecennale, tuttavia, si tratta di somme che frutteranno all’erario una quota pressoché simbolica: meno del 10 per cento, e per di più diluiti in un tempo infinito (10-15 anni). Nel 2015, ad esempio, gli incassi forzosi, per la catasta di accertamenti insoluti degli ultimi 15 anni, sono stati appena 1,8 mld, rateazioni comprese.

E così, a passo di lumaca, di fronte a un ammontare da riscuotere di 800 mld, ne sono stati incassati 35, mentre 700 mld (l’87%) si sa già che sono destinati al macero per inesigibilità (ne abbiamo parlato qui). Com’è intuibile, la consistenza vistosamente “marziana” di quest’ultima cifra non poteva che ingolfare il sistema, che da anni è pericolosamente fuori controllo, specie riguardo al funzionamento delle garanzie di imparzialità e di effettività dei recuperi.  Nel senso che né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, sono materialmente in grado di rilasciare il cosiddetto discarico dei crediti inesigibili. E questo significa che – a causa di una sorta di overbooking – nessuno più oggi sorveglia sul fatto che in questo spaventoso mare magnum di partite da cestinare, non si ritrovino infilati, magari senza volerlo, fronde di intestatari-evasori viceversa ricchi e possidenti.

I numeri visti sopra sembrano appartenere a un altro pianeta, altro che tesoretto! C’è da chiedersi davvero se gli altissimi costi di sistema, compresi quelli sulla tenuta sociale, non superino i vantaggi monetari, che, come visto, sono (e saranno) sempre esigui. D’altro canto, è evidente che il tappezzare di cartelle Equitalia tutto il Paese non poteva che deprimere l’economia piuttosto che risollevarla. Soprattutto se lo hai fatto in forma massiva e a casaccio, come ha dimostrato di fare, del tutto incolpevolmente – e nonostante gli elevati livelli di professionalità raggiunti (è bene chiarirlo) – l’Agenzia delle Entrate.

Prendiamo a esempio, il tasso di errore delle somme date in riscossione forzosa. In un normale sistema, quando vai ad armare la mano del “fuciliere”-Equitalia, autorizzandone l’esercizio di poteri letali sulla incolumità patrimoniale dei destinatari, non dovrebbero essere tollerati errori superiori allo zero virgola zero. E, invece, è successo che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver consegnato all’esattore un elenco sconfinato di condanne a “morte economica” (oltre 150 milioni di posizioni, tre per ogni italiano, neonati compresi), ha cancellato il debito, fuori tempo massimo, nel pieno svolgersi della fase esecutiva. E lo ha fatto per una cifra stratosferica: 180 mld, pari al 22% del carico.

L’entità dell’errore non lascia adito a dubbi. Non può essere che l’Agenzia fiscale sia incorsa in uno svarione megagalattico. Trattasi, piuttosto, di segno evidente che la riscossione forzata ha in pancia problemi enormi. Il più rilevante dei quali è dato dal tasso di imprecisione oggettivo della cifra originaria da riscuotere. Una imprecisione che, a sua volta, dipende dal carattere strutturalmente inagguantabile, e oggettivamente ballerino, del quantum evaso.Se riguardasse solo una percentuale ridotta di casi, l’anomalia non avrebbe riverberi e questo non sarebbe un problema per il sistema. Ciò che preoccupa, invece, è che il “vizio” della approssimazione è presente nella stragrande maggioranza dei casi, essendo diventato fenomeno di massa.

E, invero, tolte le situazioni di morosità in dichiarazione (dove, è ovvio, la cifra in riscossione ha “fisiologicamente” un tasso di precisione del cento per cento), negli altri casi, che rappresentano forse i due terzi del carico, si viene chiamati da Equitalia per una cifra presuntiva, e dunque per un quantum, “sistematicamente” inficiato a monte da un tasso di imprecisione elevato. L’altra cosa paradossale è che, mentre sui crediti granitici (morosità in dichiarazione) la penalità è del 30 per cento, è invece quattro volte tanto, la sanzione applicata agli addebiti presuntivi. Ciò nonostante che, in questi ultimi casi, la base di calcolo – cioè, l’imposta evasa – resta niente più che una ipotesi (per quanto qualificata e assolutamente probabile).

La responsabilità di tutto questo non può che essere nelle procedure di legge: sono esse il problema. Te ne accorgi anche da una controprova: in sede di accertamento con adesione, l’Agenzia delle Entrate, in ossequio alle regole vigenti, fa in molti casi dietrofront e si autoriduce l’evasione accertata, applicando uno sconto del 44 per cento. Non si tratta di situazioni sporadiche, ma della riduzione media applicata a circa un quinto del plafond accertato. A dimostrazione che la stessa Agenzia “sa” dell’alto tasso di approssimazione che è insito nei suoi “prodotti”. Per il 2014, a esempio, un’evasione inizialmente quantificata in 4,391 mld, in adesione è stata autoridotta dalle Entrate a 2,459 mld (somma riferita a solo imposte – vedasi qui il Rapporto sui risultati del contrasto all’evasione – Tabella I.16 pagina 15).

Ecco perché, quindi, al di là della regolarità formale degli atti mandati in riscossione, si può dire che l’esiguità degli incassi è anche dovuta alla intrinseca dubbiosità (anzi, ancor più, della dubbiosità percepita) del quantum accertato. Un problema, quest’ultimo, dovuto all’errore di aver consentito – come regola, piuttosto che come eccezione – la diffusione della comoda scorciatoia dell’accertamento presuntivo. Benché prevista per legge, infatti, questo tipo di procedura già di per sé costituisce sanzione assai grave. Proprio per gli effetti che ne derivano, anch’essi letali, pertanto, essa andrebbe piuttosto utilizzata solo in casi eccezionali e dopo il superamento di alcuni filtri. Così era nello spirito saggio della riforma dei primi anni ’70 (legge 825 del 1971), che aveva puntato sul cosiddetto accertamento induttivo, ma solo per casi eccezionali, in presenza di scorrettezze contabili molto gravi, e dopo averne verificato de visu le prove, in sede di controllo in flagrante (vidimazioni periodiche, tempestività e regolarità delle annotazioni contabili, eccetera).

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, in queste settimane ha più volte illustrato la sua visione di ruolo e compiti dell’amministrazione finanziaria. È un approccio nuovo, che merita di essere richiamato, per l’intelligenza politica e soprattutto per la sensibilità giuridica che esprime. Controlli sì, lotta all’evasione certamente, ma anche più fiducia reciproca. È la concezione del fisco che risale a Vanoni e che questo giornale ha continuamente richiamato. La Orlandi fa riferimento soprattutto alle imprese ma il discorso vale per tutti i contribuenti. La filosofia che anima le sue dichiarazioni va oltre il contingente.

Che cosa afferma la Orlandi? Le norme antielusione per principio vanno superate. Come vanno superate le norme caratterizzate da estrema volatilità, che sono come i cerotti per tamponare le emergenze per mettere «toppe improvvise». Difatti, l’attuale ordinamento tributario è senza respiro, si avvita su se stesso, e diventa la causa più formidabile dell’evasione e soprattutto dell’elusione. Si crea difatti incertezza che è il principale nemico delle imprese, non solo ma di tutti i contribuenti. Le norme fiscali non sempre sono chiarissime, il che è solo un eufemismo per dire che ci troviamo di fronte a un groviglio senza né capo né coda. La fibrillazione e l’incertezza sono due costanti del sistema. E tutto questo demotiva le imprese italiane che decidono, sostiene sempre il direttore delle Entrate, di andare all’estero a causa «di una legislazione non allineata alle regole internazionali».

Se davvero il nuovo direttore delle Entrate riuscirà a far cambiare la filosofia del rapporto tra amministrazione e contribuenti, saremo di fronte a una svolta radicale. Se alle parole seguiranno i fatti si vedrà. Rossella Orlandi è a capo dell’amministrazione. Il suo è un discorso politico, è un discorso da ministro. Ci vorranno tempi lunghi per l’attuazione di questa linea. Ma questa è la direzione. È la prima volta che si sente parlare di fiducia reciproca. Finora non se ne trova traccia nei discorsi politici. Per capire come stanno le cose dal punto di vista politico basta ricordare alcune delle ultime proposte del governo che per la loro modestia dimostrano che la strada di una nuova filosofia non è stata ancora imboccata.

Il primo passo lo deve fare il governo. È significativo il richiamo della Orlandi alla lentezza che caratterizza i lavori per l’approvazione delle delega fiscale. «Una delega pensata non per rifondare ma per una manutenzione del sistema» e che va resa «effettiva ed efficace, procedendo spediti, visto che finora i tempi si sono allungati», nonostante ci abbiano lavorato «già tre governi e due parlamenti». La vicenda della legge delega dimostra che nella predisposizione delle leggi fiscali bisogna distinguere l’aspetto politico dalla formulazione tecnica: la prima tocca alla classe politica la seconda all’amministrazione, senza confusione di ruoli.

Usare il bancomat non è più reato

Usare il bancomat non è più reato

Nicola Porro – Il Giornale

Negli ultimi 10 anni esagerare con il Bancomat era davvero rischioso. Non tanto perché si rischiava di finire in rosso in banca, quanto perché si era certi di finire soffritti dall’Agenzia delle entrate. Facciamo un passo indietro. Gli uomini di Attilio Befera (oggi è stato sostituito come ben sapete da Rossella Orlandi) nei confronti dei tanto odiati lavoratori autonomi, e in particolare dei professionisti, si erano dotati di un bazooka. Chiunque dal primo gennaio del 2005 si fosse permesso di utilizzare il Bancomat avrebbe dovuto dimostrare a chi erano destinati i contanti. Una roba da pazzi. Ma credeteci, vera. In caso di accertamento, gli uomini del fisco si presentavano dal lavoratore con un foglio elettronico con su scritti tutti i Bancomat e prelievi cash fatti negli ultimi cinque anni. In modo del tutto arbitrario sostenevano che una percentuale potesse essere giustificata dal tenore di vita e dalle spese più spicce (sigarette, caffè, mance che si possono presumere pagate in contanti), ma sul resto era necessaria una prova dell’utilizzo da parte del povero contribuente. Una prova chiaramente diabolica. Ma ancora più diabolico era l’atteggiamento del fisco.

Mettiamo che il poveraccio avesse prelevato, in cinque anni, 10mila euro (ma per un reddito medio potrebbe essere ben di più) e che gli uomini del fisco gli abbuonassero 4mila euro. Il resto, e cioè 6mila euro, veniva considerato dal fisco come ricavo aggiuntivo, non dichiarato e dunque evaso, da parte del lavoratore autonomo. Secondo il principio che il nero genera il nero (cosa peraltro vera), per dieci anni professionisti e autonomi hanno pagato imposte su prelievi fatti con il Bancomat di cui non sono stati capaci di giustificare l’utilizzo. Se uno sprovveduto, dotato di buon reddito e sicuro di essere fiscalmente a posto, si fosse azzardato a giocare e perdere a poker o fare regali in contanti a sue amiche (sì, certo, non molto elegante, ma saranno fatti suoi) o a parenti o a figli, per più di 50mila euro l’anno, rischiava addirittura di finire in carcere per superamento delle soglie di evasione ai fini della rilevanza penale. Ai signori del fisco si dovevano giustificare anche le mance, se cospicue. Insomma, un inferno fiscale. E soprattutto un principio da Stato di polizia.

Ovviamente chi è stato colpito da simili indagini ha fatto ricorso. Ma la Cassazione per una buona serie di casi ha dato ragione all’impostazione del fisco. In effetti, dal punto di vista legale, l’Agenzia era blindata da un codicillo contenuto nella Finanziaria del 2005 (governo Berlusconi). Fino a quando un contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria regionale del Lazio che, nel 2013, bontà sua, si è rimessa addirittura alla Corte costituzionale dubitando della legittimità di questa norma, che anche a un bambino sembra folle. Siamo così arrivati ai giorni nostri e alla decisione della Corte che, pochi giorni fa, con la sentenza numero 228, ha giudicato incostituzionale la procedura e questa diabolica presunzione legale. Evviva. Sono passati solo dieci anni. E molti professionisti hanno già subito la gogna dell’evasione e pagato la sanzione conseguente. Finalmente un giudice, a Roma, ha stabilito che quell’assurda presunzione sui prelievi di contanti come costituzione di ricavi in nero sia stata lesiva del principio di ragionevolezza e capacità contributiva.

Alla fine viene da pensare sulla qualità del percorso legislativo in questo Paese. E qualche brivido corre lungo la schiena pensando all’ultima finanziaria (ora si chiama legge di Stabilità). Siamo piuttosto certi che l’idea di tassare la liquidità prelevata con i Bancomat non sia stata un’idea di Silvio Berlusconi all’epoca al governo. Eppure sono dieci anni che professionisti e autonomi pagano per questa scellerata previsione normativa.

All’interno della Finanziaria del 2005 fatta di un solo articolo e 572 commi, al comma 402 era previsto: le parole da «a base delle stesse» alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni». Non state a perderci la testa: arabo. All’epoca, c’è da giurarci, l’astrusa previsione normativa fu presentata dagli uffici ministeriali come norma fondamentale per combattere l’evasione fiscale. E giù tutti ad applaudire. Ecco, quando vi dicono, come purtroppo si scrive anche nell’ultima legge di Stabilità, che sono previste nuove e più dure norme per combattere i furbetti, state certi che la fregatura è per tutti.

Conti d’evasione

Conti d’evasione

Davide Giacalone – Libero

Sono anni che contestiamo l’irragionevolezza dei dati sull’evasione fiscale, diffusi dall’Agenzia delle entrate. Da anni ripetiamo che non ha senso aizzare l’opinione pubblica contro un’evasione non recuperabile, contestando 100 e portando a casa 10. Ora che la nuova direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlandi, ci conforta con la sua convergente opinione, però, non vorremmo s’eccedesse. Non possiamo semplicemente scordarci il passato, lasciando che chi ha evaso il fisco la faccia franca e non sborsi un tallero. Vediamo, allora, in quale contesto la parolaccia potrebbe non essere una bestemmia. Mi riferisco al condono.

Proviamo a dare una qualche dimensione quantitativa. L’anno scorso l’Agenzia rese noto, e i mezzi di comunicazione acriticamente strillarono, che dal 2000 al 2012 si erano accumulati 807,7 miliardi che sarebbero dovuti andare al fisco e che, invece, mancavano all’appello. Un’evasione pazzesca. Se la si recuperasse il debito pubblico sarebbe ricondotto al di sotto di ogni soglia del pericolo. Facemmo i conti, a spanne, basandoci sui dati della stessa Agenzia: da quella montagna si dovevano togliere 193,1 miliardi, perché i contribuenti interessati avevano già dimostrato di non doverli; 69,1 erano stati pagati; 20,8 erano ancora in contestazione. Già si scendeva da 807,7 a 524,7. Da quelli si dovevano togliere altri 107 miliardi, perché dovuti da soggetti falliti, quindi a decidere sarebbero dovuti essere i giudici fallimentari, escludendosi le normali procedure di recupero. 19 miliardi erano già stati rateizzati, quindi in corso di riscossione. Da 807,7 si passava a 398,7. Che non è la stessa cosa. Era un conto della serva, ma utile a capire. A questo si aggiunga che una fetta assai rilevante di quel gettito mancante era ed è composto da sanzioni: il contribuente che non aveva pagato (o si supponeva non lo avesse fatto secondo il dovuto) veniva gravato di ulteriori oneri. Il che, forse, risponde a una logica di presunta equità, ma non è molto logico sperare che chi non ha dato 100 dia 200. Dato tutto ciò, che si fa, ora, si molla la presa e ci si dedica agli evasori più freschi e perseguibili? La si può considerare una scelta pragmatica, ma non giusta.

Il Parlamento ha già approvato la delega fiscale. Tocca al governo provvedere al riordino della materia. Posto che l’obiettivo principale deve essere quello di far scendere la pressione fiscale, perché di tasse ne paghiamo troppe e il terrore (fondato) della loro crescita è la principale causa della mancata ripresa dei consumi, e posto che il secondo obiettivo è quello di avere un fisco che non agisca da despota svincolato dalle leggi, talché prima prende e poi ascolta la contestazione, degno compare di uno Stato che pretende d’incassare ma continua a non pagare, posto tutto ciò, una volta provveduto ai decreti delegati e riformato il fisco, ci può anche stare che si chiuda il passato con un condono. Lo so: fa schifo. Ripugna anche a me che lo scrivo. Ma agli evasori veri è meglio togliere qualche cosa, piuttosto che continuare a far bau bau. Anche perché quel cane è feroce con chi evade per necessità, ma sdentato contro chi lo fa con voluttà.

Tanto più che sono già due i ministri in carica che, interrogati sulla possibile manovra autunnale, rispondono: Pier Carlo Padoan la esclude e noi ci fidiamo di lui. Prima Marianna Madia e poi Maurizio Martina. Lasciamo perdere che ai due deve essere sfuggito che il Consiglio dei ministri è un organo collegiale, e prima di giurarci sopra la Costituzione potrebbe anche essere letta, ma le loro parole significano una cosa precisa: il governo non ha collegialmente discusso dei conti, chiarendo a tutti i ministri in quali condizioni reali si trovano, sicché loro, in mancanza di numeri, si affidano alla fede. Con un pizzico di viltà: perché Padoan ha ripetutamente segnalato che ci sono dei problemi, quindi la garanzia che non ci saranno manovre è da intestarsi al capo del governo, Matteo Renzi.

Non è né piacevole né produttivo mettersi a fare i rompiscatole. Tanto più che il conto lo pagheremo tutti. Ma puntare sulla furbizia e l’arte del maneggio non è saggio. Il Paese ha bisogno di un’operazione verità. Abbiamo la forza di rimediare a conti squilibrati, ma ce la giocheremo e la neutralizzeremo se continuiamo a prenderci in giro da soli, strizzando l’occhio a qualche fetta di elettorato. Tanto più che una parte degli italiani adora farsi prendere in giro, campando alle spalle dell’altra. La forza ce la giochiamo, se lanciamo una chiamata autarchica contro le istituzioni europee, chiedendo a Mario Draghi di farsi gli affari suoi, come se la riduzione dello spread e il minor costo del debito lo dovessimo a qualche politica di risanamento e riduzione e non all’intervento della Bce.

Operazione verità, quindi. Sui conti e sul fisco. La direttrice dell’Agenzia ha dimostrato che vedevamo bene nel contestare quelle declamazioni propagandistiche (e ha maliziosamente aggiunto che un funzionario non usa la propria posizione per pavoneggiarsi, chissà che al predecessore siano fischiate le orecchie). Ma servono fatti, quantificabili e incolonnabili.

Quegli alibi da non alimentare

Quegli alibi da non alimentare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

In questi ultimi giorni, il tema della lotta all’evasione fiscale pare aver ritrovato un sussulto di interesse. Da un lato, è in arrivo il piano del governo sulle strategie di contrasto a chi non paga le tasse (i cui contenuti sono stati ampiamente anticipati sul Sole 24 Ore del 31 luglio), che già nel 2015 dovrà garantire un maggior recupero di evasione per circa 2 miliardi, ma che in prospettiva pone le basi per un’azione di più ampio respiro finalizzata a migliorare l’efficacia dell’attività di repressione degli illeciti.
Dall’altro lato, ci sono le aspettative (in vero, talvolta forse eccessive) legate all’attuazione della delega fiscale che, come sappiamo, è destinata a produrre effetti positivi su un sistema fiscale da anni allo sbando, ma non una svolta così profonda da modificarne strutturalmente la natura. Sul versante del contrasto al sommerso la legge delega propone una ricetta – ancora tutta da scrivere e ampiamente ripresa e rilanciata proprio nel rapporto anti-evasione che il governo sta predisponendo – con molte soluzioni, che vanno dall’accelerazione delle semplificazioni sino all’introduzione di meccanismi premiali per i contribuenti onesti, tutte tese a favorire la tax compliance, ovvero la spinta verso l’adempimento spontaneo alle richieste del fisco. La delega, in realtà, propone anche altre misure quali ad esempio l’introduzione dell’obbligatorietà della fattura elettronica, con il duplice obiettivo di allargare il monitoraggio e il patrimonio informativo sulle attività dei contribuenti e al tempo stesso di alleggerire alcuni adempimenti burocratici che verrebbero soppressi proprio grazie al nuovo sistema di registrazione dei corrispettivi.

Il quadro si completa con l’agenzia delle Entrate che, dopo l’insediamento del direttore Rossella Orlandi al posto di Attilio Befera, la scorsa settimana ha definito la direttiva annuale sui controlli, nella quale spicca (giustamente) la volontà di intercettare i “veri casi di evasione”, ovvero quelli più gravi e che causano maggiori danni all’erario.
La sensazione, però, è che dietro la rinnovata attenzione per l’evasione, fenomeno da sempre preoccupante e di dimensioni enormi, che ostacola fortemente la libertà del mercato e che è causa di iniquità sociale, possa involontariamente nascondersi un messaggio ambiguo sulle modalità con cui lo Stato deve imporre e pretendere il rispetto della legalità tributaria. Il rischio è che si possa insinuare la convinzione dell’esistenza di un’evasione “cattiva” e una “meno cattiva”, una dannosa e una un po’ meno pericolosa, da contrastare con intensità diverse.
Allo stesso modo è un rischio, come qua e là si è sentito, trasmettere l’idea di un nuovo corso del contrasto all’illegalità tributaria fondato in qualche modo sulla contrapposizione tra grandi e piccoli evasori. L’evasione fiscale – comportamento del quale conosciamo tante cose anche se non proprio tutto – è un fenomeno estremamente complesso. È un fenomeno fatto di grandi frodi, tanto sulle imposte dirette quanto, e forse più, sull’Iva; fatto di società di comodo; di false fatture per importi rilevanti; di sedi societarie nascoste in paradisi fiscali; di esterovestizioni; di opachi intrecci internazionali che coinvolgono grandi imprese e multinazionali; di un uso spregiudicato del transfer pricing. Ma occorre essere realisti. L’evasione ha decine di volti e non a caso il rapporto sulle future strategie che il governo invierà al Parlamento individua ben 19 tipologie di evasore.
E in un Paese con milioni e milioni di partite Iva, con una struttura produttiva prevalentemente di piccoli e piccolissimi contribuenti, l’evasione fiscale è anche un fenomeno di massa. È un’evasione di “tanti che evadono poco”, ma con danni ugualmente enormi per la collettività e per le casse dello Stato.
Il fisco ha certamente bisogno di costruire nuove fondamenta su cui far crescere il rapporto con i contribuenti. La solidità, il rigore e la correttezza dell’azione di contrasto all’evasione devono procedere di pari passo con la creazione di un clima di fiducia reciproca, nel quale il cittadino-contribuente non percepisca più quel senso di prevaricazione, talvolta di vessazione e oppressione, con contestazioni tutte basate sull’interpretazione delle norme e sui cavilli di commi e circolari.
Molti studi, in passato, hanno analizzato i motivi che spingono i cittadini a evadere le tasse. Sono gli stessi motivi che gli evasori – grandi e piccoli – utilizzano poi come forma di auto-giustificazione. La casistica è molto ampia: le tasse sono troppo alte; evado per necessità; questa tassa è ingiusta; il sistema è complesso; lo Stato non offre servizi adeguati alle imposte che pretende; l’amministrazione è inefficiente. Si potrebbe continuare e di “scuse” per evadere il fisco se ne troverebbero molte altre. Ma questo è il punto: si faccia attenzione a non fornire altri alibi a chi facilmente riesce già a trovarsene da solo.

Se non ci riesce lei…

Se non ci riesce lei…

Paolo Giacomin – QuotidianoNet

Rossella Orlandi, nuova direttrice dell’Agenzia delle Entrate fresca di nomina, ha messo un’ironica pietra tombale sulle tasse in Italia. Con queste parole: «Io che sono una esperta, ho perso un pomeriggio per cercare di capire che cavolo dovevo fare con l’Imu di casa mia». C’è poco da aggiungere e quel pizzico sono i conti sulla pressione fiscale secondo Confcommercio: il 53,2% al netto del sommerso. Una spremuta record per la zona Ocse resa ancora più aspra dalle difficoltà che da anni cittadini e imprese devono affrontare per pagare quanto lo Stato chiede per i propri bisogni di cassa. Ostacoli impietosamente fotografati dal rapporto “Paying Taxes 2014” elaborato da Pwc e Banca Mondiale: dal confronto tra i sistemi fiscali di 189 Paesi risulta, per esempio, che un’impresa in Italia impiega mediamente 269 ore all’anno per pagare le tasse, contro una media europea di 179 ore. A fronte di un’imposizione fiscale complessiva sulle aziende pari al 65,8% (contro il 41% del Vecchio Continente e peggio di quanto misurato da Confcommercio) spalmata in 20,3% sui profitti, 43,4% sul lavoro e 2% in altri balzelli. Vista la pessima situazione di partenza, far meglio non dovrebbe essere impossibile.

La riforma annunciata da Renzi ha offerto alla Orlandi la ribalta per spiegare novità che dovrebbero rendere l’Erario più civile e gentile con il contribuente. Liquidare le buone intenzioni sarebbe prematuro (e un po’ ingiusto), dubitare del buon esito della rivoluzione fiscale è lecito viste le scottature passate, sperare che sia la volta buona è dolorosa necessità perché è dalle strade del Fisco che passano le possibilità di ripresa: riportando la pressione fiscale a livelli più equi (un taglio di cinque punti in cinque anni?), lasciando un po’ di soldi in più in tasca alle persone sperando si riversino almeno in parte sui consumi. E rendendo il pagamento dei tributi meno incerto e imprevedibile. Perché evadere è reato, pagare il Fisco è un dovere, ma non è tollerabile che in Italia persino il proverbio «Nella vita vi sono solo due certezze: la morte e le tasse» ormai si limiti solo all’unica ipotesi inevitabile: sperando che almeno su quella non arrivino altri balzelli.

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Si deve riconoscere al neo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi che nella sua prima uscita pubblica ha toccato i tasti giusti. Di certo, ha posto l’accento su almeno due aspetti dell’attuale sistema fiscale responsabili di aver compromesso, negli ultimi anni, il rapporto tra Fisco e contribuenti.

Da un lato, l’eterno problema dell’incertezza di norme e regole con cui i contribuenti e i loro consulenti devono fare i conti. Modifiche e correzioni dell’ultima ora, spesso a ridosso delle scadenze, oppure sul filo di lana della fine dell’anno: è anche per questo che il peso della burocrazia fiscale, in termini di maggiori oneri e costi per le imprese, è diventato insopportabile. Ora però è la stessa Agenzia delle Entrate a preoccuparsi di bloccare i cambi di regole dell’ultima ora. Pena, come ha detto la stessa Orlandi, non essere più in grado di consegnare a domicilio il 730 precompilato. Un alleato in più – e di “peso” – per tutti i contribuenti che come un disco rotto chiedono da anni un fisco semplice oltre che equo.

Dall’altro lato, sentir dire dal neo direttore che l’evasore di professione non può stare sullo stesso piano di chi sbaglia la dichiarazione o di chi omette i versamenti per pagare gli stipendi ai dipendenti, rappresenta un cambio di indirizzo che non può che essere accolto con favore. Un conto è un accertamento di 20 euro sulla tassa dei telefonini; altro conto è parlare di esportazione illecita di capitali all’estero, di frode fiscale, di fatture false. Parlare insomma di chi evadendo o eludendo il fisco falsa il mercato e crea concorrenza sleale.

Musica per le orecchie dei cittadini onesti che chiedono di pagare il giusto e di poterlo fare in un sistema più trasparente e in grado di distinguere l’errore – anche quello imputabile a una diversa interpretazione della norma – dall’evasione vera e propria.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.