bancomat

Usare il bancomat non è più reato

Usare il bancomat non è più reato

Nicola Porro – Il Giornale

Negli ultimi 10 anni esagerare con il Bancomat era davvero rischioso. Non tanto perché si rischiava di finire in rosso in banca, quanto perché si era certi di finire soffritti dall’Agenzia delle entrate. Facciamo un passo indietro. Gli uomini di Attilio Befera (oggi è stato sostituito come ben sapete da Rossella Orlandi) nei confronti dei tanto odiati lavoratori autonomi, e in particolare dei professionisti, si erano dotati di un bazooka. Chiunque dal primo gennaio del 2005 si fosse permesso di utilizzare il Bancomat avrebbe dovuto dimostrare a chi erano destinati i contanti. Una roba da pazzi. Ma credeteci, vera. In caso di accertamento, gli uomini del fisco si presentavano dal lavoratore con un foglio elettronico con su scritti tutti i Bancomat e prelievi cash fatti negli ultimi cinque anni. In modo del tutto arbitrario sostenevano che una percentuale potesse essere giustificata dal tenore di vita e dalle spese più spicce (sigarette, caffè, mance che si possono presumere pagate in contanti), ma sul resto era necessaria una prova dell’utilizzo da parte del povero contribuente. Una prova chiaramente diabolica. Ma ancora più diabolico era l’atteggiamento del fisco.

Mettiamo che il poveraccio avesse prelevato, in cinque anni, 10mila euro (ma per un reddito medio potrebbe essere ben di più) e che gli uomini del fisco gli abbuonassero 4mila euro. Il resto, e cioè 6mila euro, veniva considerato dal fisco come ricavo aggiuntivo, non dichiarato e dunque evaso, da parte del lavoratore autonomo. Secondo il principio che il nero genera il nero (cosa peraltro vera), per dieci anni professionisti e autonomi hanno pagato imposte su prelievi fatti con il Bancomat di cui non sono stati capaci di giustificare l’utilizzo. Se uno sprovveduto, dotato di buon reddito e sicuro di essere fiscalmente a posto, si fosse azzardato a giocare e perdere a poker o fare regali in contanti a sue amiche (sì, certo, non molto elegante, ma saranno fatti suoi) o a parenti o a figli, per più di 50mila euro l’anno, rischiava addirittura di finire in carcere per superamento delle soglie di evasione ai fini della rilevanza penale. Ai signori del fisco si dovevano giustificare anche le mance, se cospicue. Insomma, un inferno fiscale. E soprattutto un principio da Stato di polizia.

Ovviamente chi è stato colpito da simili indagini ha fatto ricorso. Ma la Cassazione per una buona serie di casi ha dato ragione all’impostazione del fisco. In effetti, dal punto di vista legale, l’Agenzia era blindata da un codicillo contenuto nella Finanziaria del 2005 (governo Berlusconi). Fino a quando un contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria regionale del Lazio che, nel 2013, bontà sua, si è rimessa addirittura alla Corte costituzionale dubitando della legittimità di questa norma, che anche a un bambino sembra folle. Siamo così arrivati ai giorni nostri e alla decisione della Corte che, pochi giorni fa, con la sentenza numero 228, ha giudicato incostituzionale la procedura e questa diabolica presunzione legale. Evviva. Sono passati solo dieci anni. E molti professionisti hanno già subito la gogna dell’evasione e pagato la sanzione conseguente. Finalmente un giudice, a Roma, ha stabilito che quell’assurda presunzione sui prelievi di contanti come costituzione di ricavi in nero sia stata lesiva del principio di ragionevolezza e capacità contributiva.

Alla fine viene da pensare sulla qualità del percorso legislativo in questo Paese. E qualche brivido corre lungo la schiena pensando all’ultima finanziaria (ora si chiama legge di Stabilità). Siamo piuttosto certi che l’idea di tassare la liquidità prelevata con i Bancomat non sia stata un’idea di Silvio Berlusconi all’epoca al governo. Eppure sono dieci anni che professionisti e autonomi pagano per questa scellerata previsione normativa.

All’interno della Finanziaria del 2005 fatta di un solo articolo e 572 commi, al comma 402 era previsto: le parole da «a base delle stesse» alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni». Non state a perderci la testa: arabo. All’epoca, c’è da giurarci, l’astrusa previsione normativa fu presentata dagli uffici ministeriali come norma fondamentale per combattere l’evasione fiscale. E giù tutti ad applaudire. Ecco, quando vi dicono, come purtroppo si scrive anche nell’ultima legge di Stabilità, che sono previste nuove e più dure norme per combattere i furbetti, state certi che la fregatura è per tutti.

Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Michele Di Branco – Il Messaggero

Avrebbe dovuto essere l’asso nella manica gettato sul tavolo per contribuire a sconfiggere l’evasione fiscale. Ma a poco più di un mese di distanza dalla riforma voluta dal governo Renzi che rende obbligatori i pagamenti elettronici per importi sopra i 30 euro (se richiesto), l’operazione non è affatto decollata. Solo 6-700 mila esercenti, tra quelli chiamati a farlo, si sono dotati del Pos Mobile che consente di accettare le carte di credito e debito operanti sui circuiti internazionali MasterCard, Visa e Maestro. E questo significa che sui 5 milioni di operatori che dovrebbero essere coinvolti nell’operazione appena 2-2,2 milioni sono in regola. Dunque secondo le stime di Confesercenti e Cna siamo ben al di sotto del 50%. E se si scende nella platea dei negozianti al dettaglio la percentuale crolla ancora.

Palazzo Chigi è convinto che la riforma funzionerà. Ma intanto i numeri parlano di un flop. Che è frutto essenzialmente di due problemi: il fatto, non da poco, che non sono previste sanzioni per chi trasgredisce e il fardello dei costi per l’installazione e la gestione dei Pos che affligge in particolare gli esercenti di medio-piccola grandezza. Si può arrivare fino a mille e cinquecento euro di spesa nell’arco di un anno per un’azienda con un volume di transazioni bancomat o carta di credito da 50 mila euro. Vale a dire i 150 euro necessari per l’installazione l’attivazione, più i costi di gestione mensili che possono arrivare fino a 80 euro. E infine il carico finale da circa mille euro delle commissioni sulle transazioni. Di regola, con le banche si negozia un’aliquota dell’1,5-2% in favore di queste ultime sul volume degli incassi. Ma ci sono anche formule, alternative, che prevedono una commissione di 0,25-0,40 euro sulla singola transazione. Proprio i costi sono lo scoglio contro il quale rischia di infrangersi la diffusione della moneta elettronica. Un esempio su tutti: i tabaccai. Per un bollo di 300 euro il guadagno per l’esercente è di un euro, ma se il pagamento avviene con bancomat il costo che il tabaccaio deve sostenere è di 3 euro. L’Abi garantisce che proprio grazie alla diffusione del sistema «i prezzi praticati dagli istituti si ridurranno».
Confesercenti spiega che un’applicazione inflessibile della legge costerebbe 5 miliardi l’anno per le imprese tra oneri di esercizio e commissioni e parla di innovazione «che rischia anche di essere inutile visto che il 70% degli italiani non ha intenzione di cambiare le proprie abitudini di pagamento». Ragionamenti di tenore simile dalle parti della Cna. «È innegabile l’importanza della tracciabilità – afferma Mario Pagani, responsabile del dipartimento delle politiche industriali – ma non si può ignorare l’impatto in termini di costi sulle attività che hanno prodotti di basso valore. Servirebbero incentivi o sgravi fiscali per favorire il passaggio anche culturale alla moneta elettronica e sarebbe anche opportuno alzare la soglia minima almeno a 50 euro per ammortizzare i costi». E dire che la riforma non è piombata affatto in maniera imprevista visto che le novità è prevista da una legge del 2012.