La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali
Carlo Lottieri
Da qualche tempo una commissione appositamente costituita da parte del Parlamento europeo sta conducendo indagini al fine di valutare in che modo taluni Paesi europei (Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Svizzera e altri ancora) stiano violando le regole comunitarie, sottoscritte anche da chi – come la federazione elvetica – ha firmato accordi bilaterali. L’idea di fondo è che talune normative tributarie di questo o quel Paese europeo sarebbero state elaborate al fine di attirare capitali e investimenti.
Sembra, insomma, che si debba considerare “sleale” il comportamento di cerca di mantenere entro ben precisi limiti l’entità della tassazione, rendendo difficile la vita agli Stati più esosi. Buona parte di questa agitazione è conseguente allo scandalo che ha visto coinvolto Jean-Claude Juncker, attuale presidente della Commissione europea e per molti anni figura cruciale del piccolo principato lussemburghese. Al di là delle circostanze del momento è comunque un segno dei tempi che buona parte della classe politica del Vecchio Continente sembri ossessionata dalla volontà di alzare le imposte là dove sono basse, invece che preoccuparsi di ridurle dove sono divenute ormai insopportabili.
Una quota significativa (sicuramente maggioritaria) del ceto dirigente europeo ritiene che non vi siano limiti alle pretese del potere pubblico, determinato a spremere quanto più sia possibile le imprese e le famiglie. Per questo vengono messe sotto accusa, allora, quelle multinazionali che dislocano nei diversi Paesi le attività e i profitti tenendo in grande considerazione i diversi regimi tributari. Esattamente come ognuno di noi compra un prodotto nel negozio A e un altro nel negozio B, molte corporation con attività in varie aree del mondo valutano i loro progetti di crescita e insediamento anche sulla base del principio che collega tra loro i costi e le opportunità. Se non facessero così, i prezzi dei prodotti e servizi che esse offrono sarebbero molto più alti.
È comunque interessante come la lotta ai paradisi fiscali, e a difesa degli inferni fiscali, si basi in larga misura su una manipolazione del linguaggio. Poiché il mainstream statalista ritiene che ogni euro sia potenzialmente del potere pubblico e che questi abbia il diritto di rivendicarlo, la riduzione delle imposte è presentata come un “aiuto di Stato”, come “concorrenza sleale”, come collaborazione in un’attività sostanzialmente criminale che è orientata a “evadere l’obbligo della contribuzione fiscale”.
Tutto questo è molto preoccupante, dal momento che il chiaro disegno politico di chi combatte le politiche fiscali attrattive – e che negli scorsi, ad esempio, mise sotto processo la crescita impetuosa dell’Irlanda, un tempo terra di povertà ed emigrazione – è arrivare a un’armonizzazione crescente delle politiche fiscali. Su “La Repubblica”, ad esempio, Nicola Acocella ha sostenuto la necessità “di maggiore uniformità nella conduzione delle politiche fiscali, oltre che in materia di regolamentazione finanziaria, politiche industriali e del lavoro e di progetti comuni”. D’altra parte, se adottare una tassazione inferiore significa essere sleale verso chi chiede di più (e attrarre capitali e imprese) è chiaro che l’unica maniera per uscire da questa situazione consiste nell’avere – prima o poi – un regime fiscale identico in ogni parte d’Europa. Ovviamente non si tratterebbe di estendere all’intero continente la fiscalità della Svizzera o del Lussemburgo, ma invece di innalzare tutti i regimi tributari al livello dei più esigenti.
Già oggi molti dicono che non è possibile avere una politica monetaria comune, grazie all’euro, e poi avere differenti politiche fiscali, regole del lavoro disomogenee, sistemi previdenziali differenziati. Ma la battaglia condotta contro i paradisi fiscali – a difesa del socialismo europeo di destra e sinistra – è allora solo una componente (tra le altre) di una più generale battaglia contro le libertà individuali e contro le logiche dell’autogoverno.
Un’Europa che declina a causa dello statalismo (della pressione fiscale, della regolazione asfissiante, dell’intreccio tra politica ed economia) chiede oggi sempre più stato e sempre più dirigismo, provando a soffocare le ultime aree di resistenza e gli ultimi spazi di libertà. Per questa ragione, quanti sono fedeli alle ragioni del liberalismo classico dovrebbero battersi a difesa della concorrenza istituzionale e fiscale tra governi, guardando ai paradisi fiscali non già come a realtà da combattere, ma modelli da imitare.