I rischi dell’economia illegale nel Pil
Letizia Moratti – Corriere della Sera
La decisione di aggregare al calcolo del Pil (Prodotto interno lordo) una parte dell’economia illegale mette ancor più in evidenza l’inadeguatezza di questo strumento nella definizione del benessere dei cittadini di uno Stato. E’ ormai assodato che né il valore assoluto del Pil né la sua crescita permettano una valutazione efficace di tale benessere e proprio per questo, dagli anni ’90, l’Onu, le Istituzioni Europee, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e diversi Paesi singolarmente hanno promosso strumenti e indicatori alternativi che superassero l’egemonia del Pil e tenessero in considerazione anche aspetti sociali e ambientali della vita in un sistema economico nazionale. La ricchezza di un Paese è infatti data anche dai progetti educativi e di istruzione, dall’attenzione verso il patrimonio artistico e culturale, dalla capacità di promuovere modelli di welfare sostenibili. Una consapevolezza che Robert Kennedy aveva espresso già nel 1968 evidenziando come il Pil misurasse “tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Esistono quindi strumenti che permettono oggi di definire la salute economica di uno Stato attraverso parametri positivi che tengano conto della qualità della vita reale dei cittadini in una forma meno aggregata e vincolante del Pil. Introdurre i proventi dell’economia illegale è una scelta che non solo va nella direzione opposta a questi modelli innovativi di valutazione, ma pone anche di fronte ad una serie di riflessioni e problematiche. In primo luogo, certamente, un tema etico ascrivibile alla necessaria moralità nell’economia che già il Papa emerito Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate aveva ribadito. E’ importante riaffermare l’importanza dei comportamenti virtuosi che le istituzioni sono chiamate ad avere nelle scelte economiche che impattano la vita reale delle persone.
Gli effetti di scelte sbagliate possono essere estremamente negativi, basti pensare all’abrogazione del Glass-Steagall Act americano e la costituzione di gruppi bancari in grado di esercitare sia l’attività tradizionale sia l’attività di investment banking. Una scelta, in verità poi rivista dalle istituzioni Usa, che ha favorito la diffusione di una finanza speculativa i cui effetti si sono visti con la crisi del 2008. Esistono però anche altri rischi legati alla scelta di includere l’economia illegale nel Pil. Tra questi, il più evidente e relativo ai perimetri di inclusione – oggi droga, prostituzione e contrabbando, ma domani magari tratta delle donne, contrabbando di organi, sfruttamento del lavoro minorile. Non è chiaro dove sia il limite e se questa scelta possa rappresentare una forma paradossale di incentivo all’economia criminale. Infatti per esempio la Francia (l’lnsee, Istituto nazionale di statistica e studi economici) rifiuta di incorporare nel calcolo del Pil le attività “esercitate sotto costrizione”.
Il Movimento per l’economia positiva fondato da Jacques Attali, di cui faccio parte, è nato dal desiderio di trasformare la crisi attuale in opportunità, modificando la nostra economia e mettendo in discussione i nostri modelli di governo, di produzione e di consumo. Nel Forum internazionale tenutosi in Italia lo scorso giugno, il Movimento ha promosso dieci azioni per una nuova economia positiva nel nostro Paese e tra queste quella per misurare il contributo del Terzo settore al Pil e inserire nella effettiva misura e in modo esaustivo il valore aggiunto del volontariato nel calcolo del Pil che fonti autorevoli stimano in un incremento di 20 miliardi di euro, appena superiore ad un punto percentuale di Pil. Una voce sicuramente più opportuna e virtuosa di quella dell’economia illegale, ma anche un segnale da parte delle Istituzioni, in particolare nei confronti dei giovani che potrebbero dirigersi verso una forma di economia più positiva e socialmente utile di quella proveniente da droga, contrabbando e prostituzione.