Sotto tiro anche gli altri fabbricati
Il Sole 24 Ore
Non solo prima casa. In una città su due, la Tasi colpisce anche gli immobili diversi dall’abitazione principale. Come dimostrano le elaborazioni del Caf Acli sulle delibere ufficiali, in più di 3.800 Comuni su 7.405 la nuova imposta sui servizi indivisibili comunali si aggiunge all’Imu sugli immobili locati, i fabbricati produttivi, le aree edificabili, gli edifici rurali strumentali. Le regole locali variano secondo molte sfumature, ma la sostanza è che la Tasi – oltre a essere l’erede dell’Imu sulla prima casa – costituisce spesso una sorta di addizionale impropria dell’Imu: stessa base imponibile, identico limite di prelievo dato dalla somma delle due aliquote e scadenze di versamento parzialmente allineate (acconto Tasi al 16 ottobre per i Comuni che non avevano deliberato a maggio, saldo Tasi e Imu al 16 dicembre per tutti i contribuenti).
L’aliquota media della Tasi sugli “altri immobili” è pari all’1,31 per mille. Lontana dall’1,95 per mille della Tasi sull’abitazione principale, ma pur sempre al di sopra del livello base dell’1 per mille. Oltretutto, in questo caso bisogna considerare che c’è anche un limite generale fissato dalla legge, per cui la somma di Tasi e Imu può superare il 10,6 per mille solo se il Comune sfrutta il margine di aumento straordinario dello 0,8 per mille, con un tetto massimo dell’11,4 per mille. È probabile, quindi, che molti dei Comuni che non hanno istituito la Tasi sugli immobili diversi dalla prima casa avessero già l’Imu al massimo e non abbiano voluto fare una sorta di “scambio” tra i due tributi.
A complicare il quadro c’è il fatto che molti Comuni hanno previsto aliquote differenziate tra le diverse tipologie di “altri immobili”, modulando il prelievo in modo diverso – ad esempio – tra abitazioni locate, case sfitte, negozi, capannoni e così via. Sugli immobili affittati, ad esempio, l’aliquota media è pari all’1,33 per mille, mentre la quota a carico dell’inquilino ammonta al 18,4% e si piazza a metà della forchetta dal 10 e il 30% prevista dalla legge. A quanto pare, molti amministratori locali si sono discostati dalla quota minima – che secondo le previsioni della vigilia avrebbe dovuto essere la più usata – per evitare che l’imposta dovuta si riducesse a pochi spiccioli, finendo così sotto la soglia minima di versamento e diventando quasi impossibile da riscuotere in caso di mancato pagamento. È tutto da dimostrare, però, che l’aumento della quota a carico dell’inquilino sia sufficiente a superare questo difetto di costruzione del tributo: oltretutto, a dover pagare non solo gli inquilini, ma gli occupanti in generale, e quindi anche i comodatari, che detengono un immobili in prestito dai parenti, i titolari di contratti di leasing, le badanti e i conviventi non sposati con il proprietario.