Vere liberalizzazioni in minimo Stato
Il Foglio
L’Italia. in quanto ad apertura al mercato, è undicesima su quindici paesi monitorati dall’annuale Indice delle liberalizzazioni pubblicato ieri dall’Istituto Bruno Leoni. Dallo studio emerge la difficoltà del legislatore nell’abbattere i veti corporativi, sovvertire lo status quo: emblematico che l’orario di apertura dei negozi – pienamente deregolamentato dal governo Monti – sia sotto schiaffo in Parlamento. Non a caso l’Italia arriva a pari-demerito con la dirigista Francia con settori a media classifica (telecomunicazioni, assicurazioni., trasporto aereo) e altri in bassa (carburanti, poste, lavoro, televisione).
Ha ragione il premier Matteo Renzi quando dice che una certa sinistra è affezionata a paradigmi superati come l’eccesso di fede nella sacralità dello statalismo e specularmente soffre di un’allergia preconcetta al mercato. Eppure grazie a un complesso di liberalizzazioni il pil italiano potrebbe aumentare di oltre il 4 per cento in cinque anni, dice il Fondo monetario internazionale. Oltre al pil, i veti trasversali costringono i cittadini a pagare un’odiosa imposta occulta: quella derivante dalla socializzazione delle inefficienze dei servizi pubblici. Tasse oltre le tasse., dice Ibl. A tale proposito il ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, imprenditrice, centra il punto quando dice che si devono rimuovere vincoli ingiustificati, incentivare la concorrenza per sgravare soprattutto le aziende dai carichi fiscali e burocratici. Durante la presentazione dello studio Ibl, Guidi ha evocato la centralità della legge sulla concorrenza, in lavorazione a Palazzo Chigi secondo le indicazioni dell’Antitrust. Un’occasione per dimostrare di non soffrire un deficit di radicalità.