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Flat Tax sogno possibile

Flat Tax sogno possibile

di Gianni Zorzi* – Panorama

Il tema del fisco è tornato di grande attualità. Non solo per gli annunci di Matteo Renzi, che promette di rivoluzionare le tasse partendo dall’abolizione delle imposte sulla prima casa. Ma anche perché sono ricomparse nel dibattito politico italiano alcune proposte sulla possibile introduzione di una «flat tax» sui redditi personali. Questo sistema di tassazione, già attivo in una quarantina di Paesi (e diffuso soprattutto nell’Europa dell’Est), consisterebbe nell’applicazione di un’aliquota unica sui redditi e condurrebbe alla rottamazione del complesso di aliquote marginali, deduzioni e detrazioni che caratterizzano il calcolo dell’Irpef odierna. Gli obiettivi principali dichiarati dai sostenitori della flat tax sono almeno tre: a) semplificare il calcolo delle imposte a beneficio del contribuente; b) ridurre la pressione fiscale e aumentare il reddito disponibile come incentivo agli investimenti e alla crescita; c) favorire il riemergere di redditi nascosti all’erario garantendo una maggiore equità fiscale. La flat tax nella sua accezione più pura nasce come tassa proporzionale poiché colpisce il reddito con la stessa intensità dal primo all’ultimo centesimo dichiarato.

In effetti, abbandonare ogni tipo di deduzione e detrazione e fissare un’aliquota unica del 19 per cento sarebbe sufficiente in Italia a garantire lo stesso gettito fiscale che attualmente incassa lo Stato sull’Irpef. Ogni punto di aliquota inferiore a questa metterebbe invece a repentaglio circa 8,1 miliardi di gettito: a meno di confinarne drasticamente la portata, una flat tax pura del 15 per cento potrebbe costare all’erario fino a 32,5 miliardi, e del 10 per cento fino a 73,2 miliardi. Il 19 per cento equivale infatti al dato medio, arrotondato per eccesso, delle imposte nette (153,7 miliardi di euro inclusa la cedolare secca) che provengono dal reddito personale complessivo dichiarato dagli italiani (810 miliardi nel 2014). L’Irpef come la conosciamo è però un’imposta fortemente progressiva e mentre sotto i 10mila euro di reddito i contribuenti mediamente versano oggi il 2,8 per cento, trai 10mila e i 20mila sono colpiti per oltre l’11,1 per cento, e nella fascia tra 20 e 29mila euro di reddito pagano in media il 16,4 per cento. Queste categorie risulterebbero evidentemente svantaggiate da un passaggio all’aliquota proporzionale. Ben diverso il discorso per chi oggi ad esempio guadagna 50mila euro (con un’imposta effettiva superiore al 25 per cento), 80 mila euro (oltre il 30 per cento di imposta netta) oppure più di 300mila euro (con un’imposizione media del 39,48 per cento). E si pensi che già dai 28mila euro di reddito, l’attuale Irpef impone che ogni euro di reddito addizionale dichiarato costi tra i 38 e i 43 centesimi, senza contare le addizionali locali che pesano in media per un altro 2,1 per cento.

Per queste categorie l’incentivo all’evasione è dunque oggi molto elevato, e potrebbe ridursi notevolmente proprio con l’adozione della flat tax. Nel contempo, però, appare irrinunciabile la garanzia di una esenzione sui primi redditi, che eviti almeno alle fasce più deboli di farsi carico  della riduzione di gettito operata su quelli più elevati. Nella pratica esistono versioni progressive o marginali della flat tax che colpiscono solamente la parte di reddito che supera la soglia di esenzione, a sua volta definita come «no-tax area». Aldilà dei tecnicismi, il nostro Paese può realisticamente sostenere il passaggio a questo sistema? E in caso di risposta positiva, quale combinazione di aliquote e deduzioni fisse può essere stabilita al fine di contenere entro una determinata soglia i rischi di minori introiti per l’erario? Ad esempio, secondo le elaborazioni di ImpresaLavoro, con una no-tax area fissa da tremila euro a contribuente e con un’aliquota del 15 per cento il disavanzo complessivo potrebbe superare i 55 miliardi.

La parità di gettito si raggiungerebbe con certezza, a fronte di tremila euro di deduzione per contribuente, solo con un’aliquota del 22 per cento, mentre non si potrebbe andare sotto il 24 per cento se i tremila euro fossero estesi anche ai familiari a carico. Diversamente, bisognerebbe sperare in una massiccia emersione del «nero»: agli occhi del fisco dovrebbero però comparire, anche nella migliore delle ipotesi, nuovi redditi per almeno 413 miliardi. Questo obiettivo appare quantomai ambizioso, dal momento che corrisponderebbe a un incremento di oltre il 50 per cento dei redditi attualmente portati in dichiarazione. È chiaro quindi che una grossa fetta delle risorse andrebbe necessariamente ricercata altrove, ed in particolare nella riduzione della spesa pubblica che di per sé risulta, come si sa, sempre incerta e difficoltosa. C’è poi il problema delle fasce deboli, per le quali le deduzioni di tremila euro non sarebbero sufficienti a scongiurare l’aggravio fiscale: sotto i 10mila euro potremmo assistere, bene che vada, addirittura a un raddoppio delle imposte, mentre tra i 10mila e i 20mila il gettito rimarrebbe nella media invariato. Diversi tentativi di declinare il binomio aliquota unica-deduzione fissa possono portare a soluzioni meno costose per i redditi più bassi. Aumentare la no tax area a seimila euro oppure a ottomila euro per contribuente determinerebbe però la necessità di portare l’aliquota unica rispettivamente al 26 oppure al 29 per cento al fine di garantire la stabilità dei conti pubblici. Se la deduzione arrivasse a 13mila euro, una flat tax al 30 per cento potrebbe costare al fisco ben 35 miliardi, e ogni ulteriore punto di riduzione altri 3,9.

Secondo le nostre elaborazioni, almeno in un primo momento garantire tutti gli obiettivi della flat tax con un’aliquota unica e relativamente bassa potrebbe essere in effetti poco realistico. Abbassare le deduzioni danneggerebbe i redditi più modesti mentre incrementare l’aliquota svilirebbe lo shock fiscale desiderato; qualunque intervento nelle direzioni opposte, invece, potrebbe mettere in tensione i conti dello Stato. Il vero nodo nel breve periodo è soprattutto l’incertezza sul gettito concretamente recuperabile dalla riemersione dei redditi nascosti. Tale incertezza però potrebbe essere testata, per esempio, con una prima riforma meno ambiziosa e audace di quelle sinora proposte: se l’esperimento andasse a buon fine e le dichiarazioni dei redditi potessero confermarlo, in un secondo momento il taglio delle tasse potrebbe essere ben più deciso e corposo. Un esempio plausibile, secondo i nostri numeri, potrebbe essere quello di una no tax area di ottomila euro con una flat tax (impropria) a due stadi: per esempio del 20 per cento fino a 29mila euro di reddito, e del 27 per cento oltre i 29mila euro. Non si tratterebbe dunque di una imposta realmente «piatta» ma porterebbe con sé molti dei benefici attesi dai sostenitori dell’aliquota unica.

Con questa soluzione le tasse calerebbero in media per tutti i livelli di reddito, anche sui più bassi, mentre il calcolo delle tasse risulterebbe notevolmente semplificato con l’eliminazione di tutto l’attuale sistema di deduzioni e detrazioni e la riduzione a due sole aliquote. Nel contempo, il possibile disavanzo fiscale che ne conseguirebbe (che stimiamo prudenzialmente in 21,4 miliardi) sarebbe interamente recuperabile con l’emersione di 130 miliardi di euro di redditi non dichiarati: obiettivo che corrisponde al più 16 per cento rispetto alle attuali dichiarazioni e che sarebbe comunque favorito da un abbattimento consistente del prelievo soprattutto sui redditi medio-alti. Il tentativo cosi delineato potrebbe estendersi a una revisione e semplificazione delle addizionali locali Irpef, oltre che al reddito d’impresa (a cui potrebbe accompagnarsi finalmente l’abolizione dell’Irap, come propone Renzi per il 2017) e ad altre forme di prelievo come quello sui redditi finanziari, per arrivare sino all’Iva. In tutti i casi, con la flat tax il contribuente potrebbe finalmente ritrovarsi un fisco più semplice e trasparente, oltre che meno vorace e più equo.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro

 

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Renzi fa ponti d’oro ai profughi e noi scappiamo dal Belpaese

Renzi fa ponti d’oro ai profughi e noi scappiamo dal Belpaese

di Massimiliano Lenzi – Il Tempo

Siamo tornati ad essere un popolo di emigranti, di gente che fa la valigia e se ne va in cerca di fortuna all’estero, altro che gli sbarchi in Sicilia dal Nord Africa e la retorica dell’accoglienza a prescindere, per aiutare chi sta peggio di noi, anche se a gran parte delle nazioni europee (Austria, Ungheria, Inghilterra e Danimarca) solo a sentir parlare di quote di profughi da accogliere viene l’orticaria e non ne vogliono sapere. La crisi economica, in questi anni, ha fiaccato la resistenza e le speranze di futuro di una parte consistente delle famiglie italiane, portando quasi 600mila nostri connazionali, dal 2008 ad oggi, ad andarsene via dal Belpaese in cerca di lavoro e di una vita migliore.

I numeri sugli italiani che tornano, come nella scorsa metà del secolo scorso, li ha raccolti (su elaborazione dei dati Eurostat) una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2008 al 2013 – si legge – gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni». Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Si tratta di numeri importanti che dovrebbero interrogare la politica, a cominciare da Govrno Renzi, troppo impegnata a far della facile retorica sui doveri dell’accoglienza che avrebbero gli italiani verso i migranti che sbarcano dall’Africa, per ricordarsi invece degli italiani che se ne vanno dall’Italia. Volendo calcolare un numero annuale, vien fuori che in questi sei anni se ne sono andati via dal nostro Paese 92.455 italiani all’anno, in pratica la popolazione di una città media italiana.

Dove vanno i nostri connazionali a cercar fortuna? Secondo i dati della ricerca, in questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Si ratta insomma di Paei europei che non saranno il paradiso ma offrono, per chi se ne va, maggiori opportunità di farcela (con, ovviamente, tutte le difficoltà che essere fuori dal proprio Paese comporta) e un sistema, a cominciare da quello fiscale, più semplice del nostro. La graduatoria dei Paesi di destinazione, poi, cambia se guardiamo ai più giovani, di età compresa tra i 15 e 34 anni: per loro la meta preferita è il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).

Altri Paesi di destinazione dei nostri emigranti sono poi il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani). Emigrare dall’Italia in Albania, una via della speranza che sarebbe stata impensabile fino a pochi anni fa quando eravamo noi il Paese sognato dagli albanesi. Furi dall’Europa la parte del leone la fanno gli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013.

«I nostri emigranti – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani». Maggiore riconoscimento del merito, migliore formazione e più facilità, se si ha talento, di farcela. C’era una volta, in Italia.

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Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Sandro Iacometti – Libero

Già oggi, con il «ricco» sistema retributivo la quota di pensionati che alla fine del mese riceve meno di 1.000 euro lordi è del 42,5%. Si tratta di 6,6 milioni di italiani che evidentemente, anche calcolando l’assegno previdenziale sulla base delle retribuzioni degli ultimi 10 anni di lavoro, come prevede il sistema per chi nel 1996 aveva già 18 anni di contributi all’attivo, non sono riusciti ad ottenere cifre più sostanziose per la vecchiaia.

Con il metodo contributivo introdotto dalle riforme Dini e Fornero, e in questi giorni tornato alla ribalta anche per alcune ipotesi di ricalcolo delle pensioni già erogate, le cose non potranno che peggiorare. E di molto. Soprattutto per chi, e saranno molti considerata la situazione economica e l’evoluzione del mercato del lavoro, non avrà una storia contributiva lineare e monolitica.

Considerato che il 46% degli italiani si colloca nella fascia di contribuenti fino a 15mila euro, che un altro 49% ha redditi compresi tra i 15 e i 50mila euro e che le entrate medie annue emerse dalla dichiarazione dei redditi 2014 si attestano a 20.070 euro (statistiche che comprendono ovviamente anche i pensionati), abbiamo chiesto al Centro studi ImpresaLavoro di effettuare una serie di simulazioni sui futuri trattamenti previdenziali di lavoratori con redditi compresi tra i 20 e i 30mila euro l’anno.

I risultati non sono incoraggianti. Anzi, dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che senza una serie di interventi che incoraggino e rilancino la previdenza integrativa (che invece continua ad essere tartassata) tra qualche decennio l’Italia sarà popolata da un esercito di anziani che dovrà tirare avanti con pochi euro in più della pensione sociale.Le elaborazioni sono state tutte effettuate su un’ipotesi di età pensionabile di 66 anni e un’eta contributiva di base di 40 anni.

La situazione risulta sulla soglia della sostenibilità per il lavoratore dipendente nella fascia alta di stipendio tra quelle prese in considerazione. Con 30mila euro lordi all’anno la sua pensione annua con il contributivo sarà di 22.271 euro (1.713 euro lordi mensili) rispetto ad un trattamento con il retributivo di 24mila euro (1.846 euro mensili). Abbassando l’asticella le cose, ovviamente, peggiorano. Con un reddito di 25mila euro la pensione retributiva ammonterebbe a 20mila euro annui (1.538 euro mensili), ma quella contributiva scenderà a 18.559 (1427 euro mensili). Riducendo le entrate del lavoratore a 20mila euro l’assegno si avvicina alla soglia dei 1.000 euro lordi. Operando solo sul montante contributivo si avrà, infatti, una pensione di 14.847 euro lordi all’anno, ovvero 1.142 al mese.

Lo scenario si fa ben più cupo per i lavoratori autonomi che hanno un’aliquota contributiva (sarà a regime nel 2019) del 24% della retribuzione interamente a loro carico, rispetto al 33% versato dai dipendenti (il 23,8% è pagato dal datore di lavoro). Con un reddito di 30mila euro e 40 anni di contributi il lavoratore autonomo, che con il retributivo avrebbe preso 24mila euro di pensione, riceverà invece un assegno mensile di 1.245 euro lordi (16.197 euro annui). Con 25mila euro il trattamento scende a 1.038 euro (13.497) e con 20mila euro il lavoratore autonomo entra nel club dei 6,6 milioni di italiani, con 830 euro lordi al mese di pensione (10.798 euro all’anno).

Fin qui abbiamo visto lavoratori «fortunati», con una retribuzione stabile e un percorso lavorativo senza interruzioni. Cosa succederebbe in caso di periodi di disoccupazione forzata, vuoti contrattuali e salti contributivi? Il nostro lavoratore autonomo dovrà faticare molto per arrivare alla fine del mese. Con un reddito di 20mila euro abbiamo già verificato che la soglia dei 1.000 euro diventa lontana. Lo stesso, però, accadrà anche a chi guadagna cifre maggiori se la sua condizione di precario lo ha fatto inciampare in qualche anno di disoccupazione.

Prendiamo in esame un reddito di 25mila euro annui. In questo caso basterebbe un buco contributivo di 3 anni a far precipitare il lavoratore nell’ambìto club. La sua pensione sarebbe, infatti, di 12.485 euro annui (960 euro mensili lordi). E il conto peggiorerebbe assai con 5 (11.810 euro) e 7 anni (11.135) di vuoto lavorativo. L’unico che riesce a restare sopra la soglia dei 1.000 euro, seppure per poco, è il lavoratore autonomo con un reddito di 30mila euro annui. Qui il trattamento previdenziale scenderebbe a 14.982 euro (1.152 euro mensili) con 3 anni di vuoto, a 14.172 euro (1.090) con 5 anni e a 13.362 (1.027) con 7 anni.

«Quello previdenziale», ha detto l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «è un tema che il governo dovrebbe affrontare rapidamente. Con questi tassi di partecipazione al lavoro e con un livello di disoccupazione giovanile che non scende, il rischio che corriamo è quello di aver scaricato sulle future generazioni il peso delle nostre scelte sbagliate. Oggi il 43% delle pensioni è inferiore ai mille euro: come dimostra il nostro studio, per i nostri giovani mille euro rischiano di essere un traguardo impossibile da raggiungere».

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Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Roberto Petrini – La Repubblica

Conto alla rovescia per il tax­Day sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.

Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.

Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.

La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Davide Giacalone – Libero

Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.

L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43,4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi. La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41,8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33,7, ma in Germania arriva al 48,8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65,4%.

Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1,2 il 16,3; il 4,01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25,23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del dagli­al­ricco e arrivate alla conclusione: intollerabile. Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.

Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.

Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.

Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Attilio Barbieri – Libero

Il flop del Tfr in busta paga rischia di provocare un nuovo buco nei conti dello Stato. Otto miliardi, euro più, euro meno. Sotto forma di entrate fiscali che verranno a mancare. I lavoratori che hanno chiesto il pagamento mensile del trattamento di fine rapporto maturando sono soltanto 567 su un milione, appena lo 0,05% della platea interessata. Nell’ultima legge di Stabilità il governo aveva previsto un’adesione massiccia, da un minimo del 40 fino al 60 per cento degli aventi diritto.

A provocare il flop è stato soprattutto il deterrente rappresentato dalla tassazione delle somme accreditate in busta paga, equiparate al resto della retribuzione. Ma la scarsissima adesione rischia di costare al fisco addirittura 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. A fare i conti è il Centro studi ImpresaLavoro che ha elaborato i dati diffusi dalla Ragioneria Generale dello Stato. «Proprio in virtù della maggiore tassazione applicata sulTfr destinato a finire nelle buste paga dei dipendenti», si legge nel paper dell’istituto, «il governo aveva stimato di raccogliere nel triennio 2015-­2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate Irpef accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del Tfr per un totale di 8,7 miliardi». Considerati anche i 100 milioni di euro destinati al Fondo pubblico di garanzia come dotazione iniziale e spese residuali che la Ragioneria Generale stima in altri 57 milioni, da qui al 2018 «l’operazione avrebbe determinato nel complesso una spesa di 952 milioni di euro», spiega il centro studi ImpresaLavoro.

Vista l’adesione men che marginale dei lavoratori lo Stato risparmierà sì quasi un miliardo nel triennio. Ma dal primo gennaio 2019 in poi dovrà contabilizzare 8,7 miliardi di entrate contributive al fondo Tesoreria per il Tfr dell’Inps, destinati a trasformarsi in debito nel momento in cui i lavoratori che li hanno versati matureranno il diritto a incassare le relative liquidazioni. «La perdita c’è anche se si vedrà soltanto nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi  ImpresaLavoro. Il meccanismo dell’operazione «Tfr in busta» era tale per cui con un miliardo messo nel triennio 2015-­2018, lo Stato ne avrebbe risparmiati 7,7 di liquidazioni dal 2019 in poi. Vista l’adesione risibile dei lavoratori questo risparmio non ci sarà. Col rischio che per coprirlo il governo ricorra a nuove imposte.

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

LaRepubblica.it

“Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara tra le grandi economie europee”. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.

L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat, di cui aveva dato conto Repubblica.it, relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 mWh (megawattora).

Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per kWh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per kWh (chilowattora).